Il Teatro La Fenice ha scelto di aprire la sua stagione 2021/2022 con un titolo fortemente pregno di significato, Fidelio di Ludwig van Beethoven, evento che chiude simbolicamente festeggiamenti per il 250° anniversario dalla nascita del compositore, ricorso nel 2020, ma funestato dalla pandemia. Fidelio è poi l’opera della libertà e della fraternità come tra l’altro dice il Maestro Myung-Whun Chung nell’intervista riportata nel programma di sala, e mai come in questo momento questi valori ci tornano nella mente quotidianamente: la libertà di tornare a riempire i nostri teatri (vaccinati e felici) a condividere fraternamente le gioie dell’arte.

Grande fuoco della messinscena era evidentemente la concertazione del Maestro Chung, acclamatissimo dal pubblico, il quale dipinge un’esecuzione come al solito intensa e sentita, il quale trova come punto di interesse più che la teatralità del dramma, la sua dimensione comunitaria, esaltandone quelli che sono gli spunti morali ed etici, che avvicinano Fidelio al repertorio sinfonico beethoveniano, alla Nona su tutto. Ottima la prova dell’orchestra, mentre più in ombra risultava stranamente il coro diretto da Claudio Marino Moretti.

Joan Anton Rechi tornava alla Fenice dopo il trascinante Faust di Gounod della scorsa estate, e pur proponendo un’altra convincente messinscena, appariva assai meno ispirato. Non che mancassero le idee, come quella della visione di Leonore che come Orfeo scende agli inferi per salvare l’amato (anche se l’ottica beethoveniana è prettamente politica) o quella dell’enorme testa di statua in costruzione, tipico simbolo di una società preda di un governo tirannico o totalitario. Tuttavia mancava nel finale quel senso di liberazione, di apertura alla luce, quell’amore che è riuscito a frangere tutte le catene del male. Rimane tutto troppo oscuro e monotono, complici anche le scene essenziali di Gabriel Insignares (suggestiva però la scena del carcere che apre il II atto) e i costumi funzionali e nulla più di Sebastian Ellrich. Discreto il disegno luci di Fabio Barettin.

La compagnia di canto aveva le sue punte di diamante nel Jaquino di Leonardo Cortellazzi e nella Marzelline di Ekaterina Bakanova, entrambi un vero lusso in questi due ruoli. Il tenore con la sua immancabile pulizia vocale e nitidezza di dizione e d’espressione, lei con la sua personalità viva, il suo carisma, l’eleganza e la sentita comunicatività, tanto da farci pensare a lei come ad una futura Leonore, sulla scia di voci più liriche come Gundula Janowitz o Edda Moser.

Tilmann Rönnebeck impersona Rocco in maniera convincente, così come Oliver Zwarg è efficace nel delineare il carattere del “cattivo” Don Pizarro, pur con qualche effetto verista di troppo. Adeguatamente incisivo è Bongani Justice Kubheka nel decisivo intervento di Don Fernando.

Tamara Wilson (Leonore) esibisce un canto adeguatamente vario (pur con un registro acuto sovente forzato) e un fraseggio piuttosto articolato, tuttavia il personaggio non emerge con tutta la sua forza psicologica e morale. Più problematico ancora è il Florestan di Ian Koziara, dove al timbro abbastanza piacevole si contrappone qualche problematica tecnica di troppo.

Completano il cast Enrico Masiero (Primo prigioniero) e Nicola Nalesso (Secondo prigioniero).

Al termine il pubblico che stipava (finalmente!) il teatro applaudiva tutti calorosamente, riservando un autentico trionfo al Maestro Chung.

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