In una sala nuovamente gremita di spettatori, torna in scena dopo 26 anni il capolavoro di Georges Bizet, in un nuovo allestimento di Silvia Paoli

L’ultima volta fu nell’ormai lontano 1995. Dopo oltre un quarto di secolo, la splendida sala del Valli di Reggio Emilia rivive le emozioni di Carmen, un’opera che non ha bisogno di presentazioni. Lo fa con un nuovo allestimento in coproduzione con il Regio di Parma, curato nella regia da Silvia Paoli.

Lo spettacolo si discosta decisamente dalla tradizione, mettendo al centro la figura di Don José, incarcerato in una fredda e spoglia cella dalla quale rivive sprazzi di vita e le vicende che lì lo hanno condotto, mescolando realtà e immaginazione in un turbinio di emozioni, gelosie, ricordi e ossessioni di cui è prigioniero dall’inizio alla fine dell’opera. Silvia Paoli vuole così raccontare la storia di una donna vista attraverso gli occhi e la memoria che riaffiora di un uomo malato incapace di distinguere sogno e veglia e assillato continuamente dall’immagine di Carmen. Ella riappare più volte, da sotto il letto, dal bancone dell’osteria di Lilas Pastia (che qui ha le sembianze di una mensa carceraria). Talvolta protagonista diretto, talvolta osservatore di sé stesso attraverso l’utilizzo di controfigure, Don José è il vero protagonista di questa lettura insolita dell’opera dove lo schema dei personaggi viene continuamente rimescolato; Dancairo e Remendado ad esempio, prima li vediamo bloccare Zuniga, ma in seguito assumono essi stessi le sembianze di due guardie, quando a doversi staccare dalla loro carovana è Don José stesso, attirato verso la madre morente da una insolitamente risoluta e tenace Micaela (mai l’avevamo vista rifilare un sonoro schiaffo al geloso protagonista maschile). Lo stesso coro si fa talvolta “personaggio” in azione, talvolta un’eco lontana di ricordi passati.

©Roberto Ricci/Teatro Regio di Parma

Di questa lettura occorre citare quelle che sono a nostro avviso le luci e le ombre. Sicuramente l’idea ha una sua coerenza e la realizzazione riesce a non discostarsi troppo dal libretto con evidenti incongruenze. D’altronde ricorrere ad una mescolanza di sogno e realtà e all’arma dell’immaginazione è strumento piuttosto semplice per sviare da possibili problemi di questo tipo: se qualcosa risulta incoerente non lo si mostra e lo si mette nel calderone del “sogno” e viceversa. Alcune scene si rivelano particolarmente efficaci, come il finale del terzo atto in cui Don José si rende infine conto che dopo aver faticosamente scelto di partire con Micaela, si trova in realtà rinchiuso in cella. Altre invece ci paiono risultare più deboli, fra tutte il quarto atto in cui il coro “A deux cuartos” e il successivo “Les voici!” si svolgono durante un non chiarissimo funerale, in contrasto con l’apparire dei due sposi Escamillo e Carmen, quest’ultima improvvisamente diventata irriconoscibilmente agghindata di un tradizionale manto bianco che rifugge totalmente dall’immagine di donna libera e trasgressiva vista fino a quel momento. Complessivamente, ambientare un’opera così lunga interamente in una stanza di prigione fa scadere, nonostante l’impegno, in una certa monotonia e staticità che molto di prezioso tolgono alla magia, alle luci e alla vitalità del capolavoro di Bizet.

Vi è quindi un’altra riflessione da fare, in questo caso negativa: siamo sicuri che sia corretto eliminare completamente qualsiasi elemento possa rimandare alle atmosfere e ai sentimenti forti di una terra come la Spagna, cuore della vicenda? Passino le trasposizioni di epoche, passi il simbolismo, ma come conciliare una musica così evocativa di un certo fuoco passionale, di certe tinte dell’animo così profondamente legate ad un contesto, con una lettura ambientata in un grigio e anonimo carcere degli anni ’60, del tutto generico nella sua collocazione? E’ infatti in momenti come le ouverture del primo e del quarto atto (e non solo!) che si avverte sulla scena la forte mancanza di un pathos e di una grandiosità che di quest’opera sono elemento imprescindibile. Non crediamo infatti che in Carmen si tratti solo di elementi decorativi o di “arredo” che nulla hanno a che fare con il messaggio drammatico umano, sociale ed emotivo. E’ vero, gelosia, ossessione, libertà e femminicidio sono temi universali ma che in Carmen rivivono solo se contestualizzati in certe atmosfere. Ci chiediamo poi cosa capirebbe, dopo aver letto (o legittimamente senza averlo fatto) la trama, chi si reca in teatro per la prima volta a vedere e ascoltare Carmen, assistendo a questo sovrapporsi continuo di visioni e soprattutto scoprendo che nonostante l’opera si chiami così, il protagonista è diventato…Don José!

Le spoglie scene sono di Andrea Belli, i costumi, tutti anni ’60 tranne che per Escamillo, unico a mantenere il tradizionale abito da torero, sono di Valeria Donata Bettella. Le luci di Marcello Lumaca, i video di Francesco Corsi e le coreografie di Carlo Massari/C&C Company completano lo spettacolo.

Musicalmente sono invece molte più le luci che le ombre da riportare.

La direzione è affidata alla giovane ma già affermata bacchetta di Jordi Bernacer, che da all’opera una lettura mai superficiale e attenta a dinamiche e sfumature. La prova dell’orchestra regionale dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini concorre con buona professionalità, così come il Coro del Teatro Regio di Parma (preparato da Martino Faggiani), positivo nella resa generale, sia pure di tanto in tanto la sincronia tra buca e palcoscenico non fosse perfetta. Purtroppo ci è toccato ancora una volta assistere all’assurdità per cui coro e figuranti (solo loro, non si capisce perché) siano costretti a indossare per tutta la durata dello spettacolo la mascherina protettiva, rendendo così il suono più ovattato. Anche i bambini del coro di voci bianche del Teatro Regio (Massimo Fiocchi Malaspina ne è il Maestro) subiscono lo stesso trattamento, cui si aggiunge il fatto che per qualche motivo a noi oscuro, è stata tagliata la loro presenza nella grande scena del quarto atto. Doppia umiliazione che vale il doppio del sostegno nei loro confronti, autori di un’ottima performance.

Il ruolo della protagonista è interpretato da una beniamina di casa, la reggiana Martina Belli. La sua è una Carmen dall’aspetto seducente nonostante regia e costumi non ne valorizzino al meglio la figura e la sensualità. Vocalmente è dotata di un bel timbro caldo e brunito, omogeneo nell’emissione e credibile nel fraseggio. Qualche lievissima imprecisione nulla vale, poiché la prova può dirsi ampiamente superata e la Belli riporta un meritato trionfo da parte del pubblico di casa, che la conosce e giustamente la ama.

Arturo Chacon Cruz è un Don José davvero convincente sul palcoscenico, tanto credibile come personaggio (a lui viene richiesto, di fatto, di essere il vero protagonista), quanto efficace dal sul piano vocale. Il fraseggio è sempre appropriato, la voce di bel colore, modulata con le giuste sfumature tanto nel canto più lirico e poetico di un’aria del fiore da manuale, quanto nelle fasi più drammatiche e crude come il celebre finale.

Marco Caria, Escamillo, convince pienamente per la tenuta di voce, sonora e tecnicamente ben sostenuta, nonostante l’interpretazione sulla scena non sia indimenticabile per fascino e scioltezza nelle movenze.

©Roberto Ricci/Teatro Regio di Parma

Laura Giordano si conferma particolarmente adatta a figure come quella di Micaela, anche quando, come in questo caso, viene chiamata ad assumere un carattere più forte e deciso di come la tradizione ci ha abituati. Il canto è espressivo e morbido, e l’interprete coinvolgente, padrona dei propri mezzi, capace di raggiungere quel pathos che la straordinaria musica di Bizet le dà in pasto.

La coppia Frasquita-Mercedes vede affermarsi con una buona prova rispettivamente Anna Maria Sarra e Chiara Tirotta. D’altro canto il paio maschile Remendado-Dancairo risulta meno omogeneo: corretto Saverio Fiore, mentre il secondo, Alessio Verna, convince e si distingue per timbro e presenza da ruoli ben più rilevanti. A quest’ultimo va anche dato merito di essere accorso a poche ore dallo spettacolo in sostituzione del titolare indisposto. Zuniga è l’ottimo Massimiliano Catellani, voce voluminosa e dizione chiara. Completa il cast Gianni Giuga, Morales.

Al termine vivo successo per l’intera compagnia, in una sala finalmente gremita e partecipe.

Reggio Emilia, 28 gennaio 2022

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