Per la prima volta nella storia del teatro modenese, va in scena Aroldo, nella produzione nata per la re-inaugurazione del Teatro Galli di Rimini. Un cast eccellente e uno spettacolo interessante che concorrono a rivelare al pubblico un’opera di rara bellezza.
Ricordato poco e ingiustamente “solo” come un rifacimento di Stiffelio, l’Aroldo di Giuseppe Verdi è invece un’opera che meriterebbe fama e gloria, come ne ebbe la prima volta che andò in scena, a Rimini nel 1857. Essa fu infatti scritta appositamente per l’inaugurazione dell’allora Teatro Nuovo, poi diventato “Vittorio Emanuele” e infine “Amintore Galli”, nonostante nel frattempo fosse crollato sotto gli implacabili bombardamenti della seconda guerra mondiale. Sarebbe rimasto poco più che un cumulo di macerie per l’intera seconda parte del Novecento fino allo scorso anno, quando è rinato in tutto il suo splendore proprio con una nuova produzione di Aroldo, quella che è in seguito arrivata a Modena e che siamo a raccontarvi. Si parlava del valore, interamente da riscoprire, di quest’opera. Dal punto di vista musicale i sette anni trascorsi dalla precedente Stiffelio non hanno fatto altro che affinare l’arte del Maestro di Busseto e questo viene spesso riconosciuto. Ciò in cui invece è prassi sminuire Aroldo, è l’aspetto drammaturgico: si sostiene che questa versione, che trasforma il pastore protestante sassone in un crociato della Gran Bretagna medioevale, sia una normalizzazione operata su pressione della censura che inevitabilmente indebolisce il tutto. Poche ma autorevoli voci invece, vedono nella figura di Aroldo una maggiore veridicità e una certa identità di reduce che viene sottolineata in questo allestimento. Infatti l’azione è spostata in piena epoca fascista e il protagonista è un reduce della guerra coloniale in Africa.
La Storia va di pari passo con le vicende del Teatro Galli. Dunque quella che sarebbe la burrasca del quarto atto diventa un implacabile bombardamento e il finale, nella sua straordinaria magia del perdono e della riconciliazione coincide con la rinascita del teatro, attraverso un salto temporale e l’apparizione del sipario storico originale, che fu recuperato dalle macerie, salvato e restaurato interamente.
La regia e drammaturgia di Emilio Sala e Edoardo Sanchi è molto particolare e coraggiosa, perché ci mostra contemporaneamente due storie slegate ma al tempo stesso qui connesse e riesce a farlo dando piena coerenza complessiva. Le vicende del Teatro fanno infatti da sfondo, prendendo il sopravvento solo talvolta, in momenti musicalmente e drammaturgicamente azzeccati (come l’ouverture in cui assistiamo ad un vero e proprio montaggio scenico) mentre la trasposizione storica riesce nell’intanto di valorizzare i caratteri, i rapporti e la storia. Le scene, che ben ricreano l’atmosfera del ventennio con le tipiche architetture razionaliste, sono di Giulia Bruschi, i costumi di Raffaella Giraldi ed Elisa Serpilli. Le luci di Nevio Cavina, i movimenti scenici di Isa Traversi e le proiezioni di Matteo Castiglioni contribuiscono alla resa dello spettacolo.

Sul versante musicale le soddisfazioni sono davvero numerose. A partire dall’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che si distingue per l’ottima qualità di suono, diretta con grande intelligenza e sensibilità espressiva da Manlio Benzi. Il Maestro recupera e restituisce al pubblico tutta la bellezza di una partitura straordinaria, con scelte di tempi confacenti e un’ottima sinergia tra le parti. Eccellente è anche la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati che in alcune scene, disposto parzialmente nei palchetti e parzialmente sul palco, regala momenti di incredibile emozione, circondando ed immergendo gli spettatori nelle sublimi melodie scritte da Verdi.
Il cast vede nella parte del protagonista Aroldo il tenore Luciano Ganci. La sua è una prova maiuscola, caratterizzata da chiarezza di dizione, dal canto sicuro e meravigliosamente proiettato in sala. La voce corre schietta e sempre sostenuta da un sapiente uso del fiato e si conferma, come già la conoscevamo, di timbro caldo, lucente e solido.
Al fianco di Ganci vi è poi una mirabile Mina, ovvero Roberta Mantegna. La parte è indubbiamente tutt’altro che priva di insidie e difficoltà ma il soprano non sembra davvero farsene un problema. Mantegna canta dalla prima all’ultima nota con disinvoltura, intensità espressiva, fraseggio appropriato e piena padronanza dei propri mezzi. Senza dilungarsi troppo con le parole basta un fatto a dimostrare quanto l’interprete abbia colpito nel segno: al termine di un’aria che abbiamo la presunzione di pensare che quasi nessuno in sala conoscesse, sono fioccate copiose e insistenti le richieste di “bis”. Quando ciò avviene, in opere come queste, significa che davvero la performance è stata degna di una menzione speciale.
Non si fermano qui le note positive perché a vestire i panni di Egberto vi era una nostra vecchia e amata conoscenza: Vladimir Stoyanov. Il baritono, che per certi aspetti ci ricorda il Leo Nucci degli anni d’oro, sfodera una disarmante incisività interpretativa unite ad una tecnica solidissima e ad un timbro di qualità, due armi che gli consentono di dedicare interamente le proprie energie, con grande generosità, alla resa del personaggio sotto tutti gli aspetti. La varietà di accenti e sfumature, la naturalezza dell’emissione, l’uso del fiato e del fraseggio sono tutti elementi che contribuiscono alla resa così diretta, efficace, priva di fronzoli, di ogni personalità che gli vediamo portare in scena, da molti anni a questa parte.
Non sfigura affatto nemmeno Adriano Gramigni, nella parte di Briano, dotato di uno strumento potente e omogeneo, di bel colore e molto correttamente piegato alle necessità interpretative.

Riccardo Rados è Godvino e nonostante la parte non sia delle più prodighe per lui, ciò non gli impedisce di distinguersi come un tenore di grande interesse per gli anni a venire, poiché sicuramente dotato di un timbro accattivante e tutt’altro che trascurabile, oltre che di musicalità e maturità teatrale. Chiude ottimamente il cast vocale Giovanni Dragano, nei panni di Enrico.
Lo spettacolo raccoglie unanimi e prolungati consensi nonostante la sala non risulti particolarmente piena, aspetto che speriamo vivamente possa nel tempo tornare gradualmente a migliorare.
Modena, 30 gennaio 2022