Il cantante lirico assume nella sua essenza la definizione propria dell’opera lirica, arte è l’unione assoluta del suono che si fa musica e gesto teatrale. La missione dell’interprete del melodramma è quella di raccontare attraverso l’azione vocale e scenica dei caratteri, delle storie che parlano al pubblico di tutti i tempi. Luca Micheletti sembra incarnare proprio questa nel suo percorso personale che lo vede discendere come attore da una compagnia, i Guitti, che conta quattro generazioni di teatranti, per poi oggi essere uno dei baritoni più richiesti dalle scene internazionali. In questi giorni debutta al Teatro Filarmonico di Verona vestendo i panni di Rigoletto, e in questa attesa occasione abbiamo avuto il piacere di chiacchierare un po’ con lui.

Baritono, regista, attore: queste sono solo alcune delle tue anime, ma cosa rappresenta il teatro per te, soprattutto oggi, nel momento in cui la dimensione della teatralità si viene a scontrare con un momento sociale difficile e di indubbio cambiamento? 

Credo che il teatro sia un’esperienza radicale in cui il performer è chiamato a fare del proprio corpo testimonianza, e il senso di questa è profondamente calato nel suo tempo. Si parla spesso della diatriba tra un teatro tradizionalista e un teatro avanguardista: ebbene, io credo che il teatro debba essere sempre d’avanguardia anche quando si toccano i classici o ci si inserisce all’interno di una tradizione: e dico “avanguardia”, da intendersi come un manipolo di coraggiosi che esplorano la parte più avanzata ed incontaminata di un territorio, che nel nostro caso è l’arte. Se l’artista si pone come obiettivo quello di farsi esploratore di nuove soglie e linguaggi, attraverso la sua esperienza può farsi testimone di un cambiamento possibile. Il coraggio dell’artista è quello di creare un mondo nuovo e rappresentarlo, al di là dei temi che tratta, attraverso la bellezza; il teatro è sempre un’occasione di metamorfosi della realtà e del mondo, è incontrare il sentimento collettivo e dargli forma, modificarlo magari. Il teatrante come testimone del suo tempo e di un mondo migliore possibile. La grande fortuna che ho io come performer, sia come attore che come cantante e, diversamente, come regista, è quella di incontrare le più grandi opere dell’umanità da vicino, di doverle studiarle a memoria, di farle mie e addirittura di tentare di creare un’interpretazione personale. Questo contatto continuo e ravvicinato con i più grandi capolavori che i più grandi geni dell’umanità hanno prodotto attraverso i secoli è un privilegio e una responsabilità: quella di continuare giorno dopo giorno, spettacolo dopo spettacolo, a trasmettere e animare quella genialità e quella grandezza, offrirle al più vasto pubblico possibile, in modo tale che sia sempre il sentimento del bello a guidare l’umanità e, soprattutto, la cognizione di poter modificare il mondo. La metamorfosi è l’arma più potente del teatro e, forse, dell’uomo. 

©Michele Monasta/

Rigoletto e Le Roi s’amuse, Verdi e Hugo. Verdi si è confrontato lungo tutta la sua carriera con grandi testi teatrali e letterari (a differenza di altri compositori), da Shakespeare a Voltaire, Schiller e appunto Victor Hugo: in che modo nella tua visione Verdi è riuscito a portare la prosa all’interno del suo teatro musicale? 

Verdi rende sempre un buon servizio agli autori e ai drammaturghi che sceglie. Questo perché oltre ad essere uno dei più grandi geni della musica di sempre, è anche uno dei più grandi uomini di teatro di sempre: Verdi sa qual è lo spettacolo che vuole costruire attraverso la musica. Sappiamo quanto tenesse alle didascalie e alla parola scenica, ma al di là di quanto fosse attento alla realizzazione, è riguardo alla concezione che è da considerarsi come un avanguardista per i suoi tempi, e non ebbe mai timore di “fare sue” le opere che toccava. Senza alcun timore reverenziale, non temette di smontare e rimontare a suo modo capolavori altrui, per creare contenuti autonomi, in un rispetto “obliquo” delle fonti. Il suo teatro musicale è stupefacente, poiché riesce veramente a ricostruire con la musica e dentro di essa una vera e propria drammaturgia originale, anche quando il precedente è Schiller o Shakespeare. Siamo di fronte ad un genio creatore che plasma un’opera ex novo nonostante il punto di partenza, e anima il tema che presceglie. Questo è certo più evidente in alcune opere rispetto ad altre, penso ad esempio agli ultimi titoli del suo repertorio, Otello e Falstaff: in entrambi i casi rende un grande servizio sia in termini drammaturgici che scenico-musicali al Bardo. Pensiamo ad Otello, alla geniale combinazione delle scene che seleziona (insieme a Boito) dalla tragedia originale: vi è un’enorme intelligenza prospettica, la vicenda passa con nitore cristallino, i caratteri sono esemplari, nonostante la necessaria asciuttezza e le tante rinunce della traslitterazione musicale. A fronte delle tante realizzazioni raffazzonate del teatro di prosa coevo a Verdi (che erano spesso appannaggio del mattatore di turno che faceva di Shakespeare quel che voleva, in funzione della sua esibizione personale), la concezione verdiana è avanti anni luce. Lo stesso dicasi per Le allegre comari di Windsor: nel suo Falstaff si ha una tenuta drammaturgica decisamente più moderna, decisamente più leggibile, dove vengono eliminate le vicende circostanziali e parallele di cui si nutriva la scena elisabettiana, centrando l’attenzione sul vivo di personaggi che diventano, grazie a Verdi e Boito, pienamente tridimensionali, umani, vicini. Riguardo a Rigoletto: l’opera di Verdi vince il confronto con Le Roi s’amuse (un’intuizione geniale di Victor Hugo, che io ho peraltro messo in scena da regista anni fa, ma che risente di una certa ridondanza e, sulla scena della prosa, non è invecchiata bene); Verdi trasfigura e screma, reinventa, ruba e trasforma… e con la “rapidità” che sappiamo, le sole parole indispensabili e gli accenti necessari crea un’opera immortale. In questo abbiamo davvero il grande teatrante, che è autore e regista insieme, che sulla pagina proietta quello che già vede sulla scena.

Rigoletto è probabilmente insieme a Jago e ad Otello uno dei ruoli teatralmente più stimolanti e complessi: in che modo hai costruito il “tuo” Rigoletto? 

Ho affrontato altri ruoli verdiani (fra cui Jago, appunto, ma anche Macbeth, il Conte di Luna…), ma Rigoletto rappresenta sicuramente il più misterioso. Il “mio” Rigoletto parte da Hugo e da tutta la retorica delle creature “miserabili” e “mostruose” di questo autore, da Gwynplaine a Quasimodo. Rigoletto s’inserisce all’interno della gamma nutritissima dei disperati che lottano a loro modo, e manchevolmente, per un mondo migliore, cercano di custodirlo e proiettano attorno a questo sogno tutto un repertorio di illusioni che precipita quando la realtà ha il sopravvento, diventano dei criminali e soccombono nel peggiore dei modi. Vendicatori crudeli, isolati odiatori di un mondo che li ha rifiutati, e che crollano, anti-eroi di un romanticismo che trova in Verdi un’anima nuova: il musicista avvicina questi tipi a qualcosa di talmente umano, che nonostante la loro lontananza nel tempo e nello spazio, nonostante l’abnormità dei loro casi, ce li rende vicinissimi, al punto che davvero piangiamo e amiamo insieme a loro. Rigoletto è incredibile, perché nonostante sia un personaggio crudele e con il quale è veramente arduo empatizzare, non possiamo non piangere con lui, per la sua disgrazia. Attraversare questo mondo di chiaroscuri, fare propria l’ambivalenza e il contrasto profondo che anima un personaggio come Rigoletto credo sia una delle esperienze più avvincenti che possano esistere per un interprete, proprio perché nei contrasti si trova sempre l’anima e la vita di quello che s’interpreta. Quando un personaggio ha una sola tinta è molto più difficile interpretarlo, mentre qui la “maschera” è talmente sbalzata, il carattere è talmente pensato e cesellato, talmente vivo, che davvero è immediata la comprensione del suo destino, anche se siamo di fronte ad un’anima disperata e colpevole. In questo difficile connubio tra brutto e bello, tra orrido e puro, si proietta l’ambivalenza dell’essere umano, senza più retorica e schermi. Se l’interprete riesce a combinare una visione di questo tipo con il necessario repertorio tecnico e la competenza vocale che un personaggio così complesso e arduo richiedono, allora credo che veramente abbiamo con Rigoletto uno degli esempi sommi e più compiuti di che cosa sia il teatro in Occidente in epoca moderna: specchio anamorfico del vero, in cui vedersi oltre le maschere, avere paura e pietà di sé, cambiare in meglio il proprio destino…

©Anselmini

Rigoletto è un personaggio indubbiamente pieno di ombre e piuttosto oscuro anche nei suoi tratti fisici e richiede all’attore anche un imbruttimento “corporale”: quanto costa dal punto di vista psicologico e anche “estetico” (mi si passi il termine) il vestire questi panni? 

Ho parzialmente risposto nella domanda precedente. Sicuramente un personaggio come Rigoletto è un’esperienza totalizzante che richiede una grande disponibilità ad indagare i propri lati oscuri. Eppure credo che sia anche incredibilmente stimolante e sollecitante. Si sa che gli interpreti spesso amano i personaggi “cattivi”, poi per noi baritoni è un destino spesso! Un personaggio pieno di contrasti e di ombre aiuta a realizzare sulla scena un’interpretazione in cui si narra un conflitto interiore, e quando sul palcoscenico è narrato un conflitto, ecco che il teatro “accade”, abbiamo una storia, un’energia speciale, qualcosa da vedere, di fronte a cui prendere posizione.

Rigoletto è anche in qualche modo regista della sua vicenda, non solo nell’organizzare la morte del Duca, ma anche nel suo “mettersi in scena” nella vita, con una bipolarità nel suo rapporto con la società (il suo ruolo di buffone, la paternità, l’emarginato): in che modo anche vocalmente si traduce tutto questo? Difficoltà e stimoli. 

La traduzione vocale di questa bipolarità di Rigoletto è sicuramente una delle sfide più grandi a cui Verdi chiama il baritono protagonista. Rigoletto è un ruolo anche molto frainteso dal punto di vista vocale: perché lo si pensa spesso come un personaggio profondamente drammatico. Deve sicuramente essere dotato di un accento speciale, ma non è mai a senso unico. Deve avere una violenza che definirei “schizofrenica” in alcune scene in cui deve essere davvero brutale, ma accanto a questa sua brutalità e follia, deve piegare la sua vocalità all’interpretazione di pagine profondamente liriche, sospese, quasi diafane: penso naturalmente al duetto con Gilda nel primo atto, ma anche alle pagine lacrimevoli che chiudono il secondo, o al finale dell’opera, dove il dolore e la violenza dei sentimenti si devono armonizzare con una dolcezza di cui, come vogliono sia Verdi che Hugo, è capace anche un personaggio dall’anima scossa e miserabile. Questo credo che sia il più grande cimento di un ruolo del genere, trovare il giusto equilibrio, anche vocale, fra i momenti più drammatici e quelli più lirici. Come per tutti i grandi classici, anche in un carattere come Rigoletto, un ruolo importante e pesante lo gioca la cosiddetta tradizione: bisogna conoscerla sicuramente, tenerla presente come un’occasione di confronto, assecondarla in qualcosa, correggerla in qualcos’altro. In Rigoletto più che mai, il pubblico tende ad aspettarsi una certa voce e determinati vezzi (e non parlo solo della vexata quaestio delle puntature), ma direi che spettacolo per spettacolo e interprete per interprete si deve trovare l’alchimia speciale… 

Verdi e Mozart sono le due colonne del tuo repertorio: due autori relativamente lontani nel tempo, ma animati dallo stesso animo di uomini di teatro. Come si incontrano questi due tipi di vocalità nel tuo percorso e quali sono le difficoltà di “approccio” stilistico? 

Sono gli autori che ho frequentato di più e che frequenterò più spesso anche nel prossimo futuro. Mi trovo decisamente a mio agio in entrambi, nonostante le differenze che li caratterizzano: questo dipende per me, credo, dal loro essere, oltre che eccelsi musicisti, uomini di teatro. Nel mio piccolo, sono anche io un uomo di teatro, che ha vissuto la maggior parte della sua vita in palcoscenico, e credo che la mia familiarità con le loro pagine e le loro opere nasca da un’immediatezza teatrale che esse hanno. Conseguentemente, parto sempre dal dato drammaturgico prima ancora che da quello musicale, per poi naturalmente piegarlo stilisticamente a quanto richiesto. Sono repertori molto lontani che si toccano però attraverso il teatro. Io mi definisco sempre come un attore che canta, e per quel che mi riguarda questo è l’approccio ideale e più agevole, sia per Verdi sia per Mozart.

Da regista, c’è un titolo verdiano che ti piacerebbe mettere in scena? 

I titoli che maggiormente mi piacerebbe mettere in scena sono, per ovvia ragione, quelli shakespeariani, a partire dai due che ho avuto modo di interpretare finora come baritono, ossia Otello e Macbeth;però è incredibilmente stimolante anche Falstaff. Direi che mettere sulla scrivania il più grande genio del teatro universale accanto a quello del teatro musicale e affrontare con una regia la combinazione di questi due loro mondi, è sicuramente un privilegio raro e la sfida più stimolante. 

Prossimi impegni. 

Il prossimo impegno mi catapulta direttamente da Verdi a Mozart, appunto, poiché tornerò ad essere Figaro ne Le nozze di Figaro dopo il debutto nel ruolo avvenuto alla Scala l’estate scorsa; questa volta sarò al Festival del Maggio Musicale Fiorentino, con il grande Zubin Mehta, che non vedo l’ora di incontrare. 

Grazie a Luca Micheletti e In bocca al lupo!

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