Nato a Venezia, Antonio Vivaldi intrecciò con la sua città e con tutto il territorio circostante un rapporto di connessione profonda: i colori nobili e marittimi della laguna, la luce del marmo rosa di Verona hanno creato la forza emotiva e drammaturgica della musica del Prete rosso.
Se Venezia ha mantenuto con il compositore un rapporto costante, riportando annualmente in scena le sue melodie e i suoi drammi, Verona, il cui Teatro Filarmonico è stato inaugurato da La fida ninfa nel 1732 e ha ospitato altre prime assolute vivaldiane (L’Adelaide, Bajazet e Catone in Utica) ha avuto un rapporto decisamente episodico con la sua musica, tanto che l’Orlando furioso tornava nella città scaligera dopo ben quarantaquattro anni da quelle mitiche recite del 1979 dirette dal M° Claudio Scimone, con la star Marilyn Horne nel ruolo del titolo.
La Griselda, che tornava in laguna, sulle assi del Teatro San Giovanni Grisostomo (oggi Teatro Malibran), fu l’opera che vide entrare Vivaldi nei teatri migliori di Venezia, dopo essere stato considerato dai signori Grimani (fu in realtà un “contentino”) troppo plebeo per quel pubblico aristocratico e selezionato.
In un unico weekend abbiamo avuto la possibilità di ritrovare Vivaldi in tutto il suo splendore, passando da Venezia a Verona, dalla Griselda a Orlando furioso, ben contenti di questa entusiasmante onda barocca e curiosi di confrontare queste esecuzioni così ravvicinate.
La nuova messa in scena della Fenice della Griselda, omaggio oltre che a Vivaldi ad altri due veneziani, Goldoni e Apostolo Zeno, nell’anno celebrativo per i 1600 anni della Serenissima, era firmata interamente da Gianluca Falaschi e attualizzava le vicende tratte dal Decameron ad un tempo e ad un luogo imprecisato, riuscendo da una parte a stilizzare i tratti di una drammaturgia invero non così forte, dall’altra non convincendo fino in fondo, con poche idee originali (il bosco è visto e rivisto, Don Giovanni di Guth in testa) e qualche caduta nel ridicolo (l’utilizzo sopra le righe del peluche, simbolo dell’amore materno, per la tortura psicologica che subisce la protagonista). E’ uno spettacolo però che avendo dalla sua una certa dinamicità d’azione, riesce comunque a garantire adeguato vigore drammatico. Funzionali, ma nulla più i costumi (da un costumista talentuoso come Falaschi era lecito aspettarsi qualcosa in più).

Lo spettacolo del Filarmonico, nato per il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca e riproposto poi al Malibran stesso nel 2018, aveva la regia di Fabio Ceresa, il quale con il contributo dei costumi straordinari (che da soli valgono il biglietto) di Giuseppe Palella e delle scene di Massimo Checchetto, aveva la precisa intenzione di riportare in auge il concetto di “Meraviglia” tipico del Barocco. Dobbiamo per a onor del vero ritenere questo spettacolo un esemplare modo di fare il teatro barocco ormai sorpassato: la staticità eccessiva, la dinamica scenica giocata sulla plasticità delle pose e delle espressioni più che sul movimento vero e proprio, fanno sì che l’azione si appiattisca e si abbia spesso la sensazione di un concerto in costume, nonostante la felice ripresa registica curata da Federico Bertolani.
In qualche modo si riscontra la stessa differenza anche da un punto di vista musicale. Diego Fasolis, così come nella recente Iphigénie en Tauride del circuito lombardi, appare ammirevolmente interessato al teatro “attraverso” e “dentro” la musica, abbracciandone con tensivo afflato ogni sfumatura sinestetica. Il dramma, le sue parole vibrano nella visione di Fasolis all’interno del segno musicale con una forza che magnetizza.
La lettura di Giulio Prandi è in qualche modo invece legata all’estetica dello spettacolo di Ceresa, ovvero pare più mirata verso l’ottenimento di una pulizia strumentale e la realizzazione di una visione musico-teatrale più elegiaca e meno nevrotica. Bene la prova del coro diretto dal M° Ulisse Trabacchin.
La direzione di Fasolis si sposa alla perfezione con le voci e le personalità che ha a disposizione, a partire dalla Griselda di Ann Hallenberg, la quale imprime graffiante forza ai recitativi e veste di temperamento e struggimento il lirismo del suo ruolo. Accanto a lei emergono l’Ottone di Kangmin Justin Kim, dotato di brillante verve scenica, vocalità importante e bella musicalità, la Costanza di Michela Antenucci che (nonostante qualche opacità in acuto) trae ben partito sia nei momenti più patetici (“Ombre vane, ingiusti orrori”), che nell’attesa top-hit “Agitata da due venti” e il Gualtiero di Jorge Navarro Colorado, in grado di dipanare con scioltezza le agilità perfide di “Se ria procella”. Un gradino più sotto il Corrado di Rosa Bove e il Roberto di Antonio Giovannini, i cui personaggi appaiono anche teatralmente più fragili.

Nella compagnia di canto dell’Orlando veronese spiccano, com’era lecito prevedere, le tre interpreti più navigate, a partire dalla magnifica Alcina di Lucia Cirillo, abilissima nel caricare d’intenzioni il suo canto e personalità teatrale assolutamente dominante. Altrettanto impressivo è il Medoro di Laura Polverelli, interprete fremente e cantante d’alta scuola. Sonia Prina, al debutto nel ruolo di Ruggiero, mette in luce la sua ben nota espressività e limpida musicalità, rivestendo di sensibilità opalescente quel capolavoro che è “Sol da te, mio dolce amore”.
Si ritaglia un suo spazio il Bradamante della musicalissima Chiara Tirotta, mentre efficaci risultano l’Angelica di Francesca Aspromonte e l’Astolfo di Christian Senn. Nel ruolo del titolo Teresa Iervolino si dimostra interprete attendibile al debutto di un ruolo che necessita per forze di cose di approfondimento parimenti espressivo e vocale.
Al termine un brillante successo per entrambi gli spettacoli, anche se il pieno di pubblico veneziano non si ripete sfortunatamente a Verona.