Si sa, in teatro le serate veramente riuscite sono casi unici, quelle quasi pienamente sono una rarità, mentre le serate infelici possono essere tante. Non ha fatto purtroppo eccezione la prima stagionale di Aida all’Arena di Verona, l’opera più attesa dell’estate in terra scaligera, quella che nonostante siano passati quasi cento anni (il centesimo festival del 2023 è dietro l’angolo) richiama pubblico da tutte le parti del mondo.
La sera del 18 giugno, popoli di tutto il mondo, appassionati, neofiti, capitati per caso, si sono dati appuntamento per celebrare l’abituale rito di godere del Verdi più sontuoso sotto le stelle. L’entusiasmo è stato frenato fin da subito dallo spettacolo di Franco Zeffirelli, uno dei meno riusciti del rapporto tra il regista toscano e l’anfiteatro veronese: l’indubbia monumentalità scenografica fa da contraltare ad una monotona staticità di movimenti, fino ad arrivare al paradossale momento del trionfo, dove la massa di elementi scenici e umani riduce tutto ad una costruzione immobile che sembra uscita dalla scatola della Lego o della Playmobil. Non mancano i bellissimi effetti luce e l’usuale capacità pittorica zeffirelliana, ma non bastano a rendere questo allestimento teatro vivo. Rispetto alla Carmen della sera precedente, ci troviamo di fronte ad uno spettacolo invecchiato maggiormente e reso anche insoddisfacente da una ripresa registica quanto meno superficiale, con cantanti abbandonati ad una recitazione che in alcuni casi sfiora davvero l’anacronistico, come la gestualità da peplum anni ’50 della protagonista. Come sempre meravigliosi i costumi di Anna Anni.

Non convince in questa occasione nemmeno la direzione del Maestro Daniel Oren, che da vero leone porta fino alla fine la serata con il pugno di ferro, cercando di imporre ritmo teatrale al fine di ottenere una quadratura musicale equilibrata tra buca e palcoscenico. Difficile chiedergli di più visto anche l’evidente numero limitato di prove dedicate alla produzione. Manca lo slancio poetico e la capacità di creare con il colore la situazione drammatica che riconosciamo da sempre al maestro israeliano, quella che si intravede nelle ultime scene, quando sembra effettivamente più rilassato.
Manca di equilibrio anche il cast vocale, a partire dalla prova della protagonista Liudmyla Monastyrska, debuttante in Arena, dotata di vocalità importante per volume e anche di colore piuttosto gradevole, ma deficitaria per intonazione, musicalità (a partire da un fantasioso solfeggio), dizione, intenzioni espressive. Una prova decisamente da dimenticare.
Stupisce la prova di Ferruccio Furlanetto, a disagio nel ruolo di Ramfis, con qualche amnesia testuale e musicale di troppo. Dignitosa la prova di Roman Burdenko (al debutto areniano) nei panni di Amonasro, voce sicuramente importante.
Le uniche due prove davvero convincenti della serata sono quelle di Murat Karahan nei panni di Radames e di Ekaterina Semenchuk nel ruolo di Amneris. Il tenore fornisce una prova in crescendo, superando con grande aplomb lo scoglio di “Celeste Aida”, e dipanando poi un’interpretazione sicura, sentita, efficacissima nel dare il giusto risalto a pagine come il recitativo della scena della tomba, grazie ad un fraseggio vario e sempre ricettivo alle richieste del dettato verdiano. Il mezzosoprano si muove con disinvoltura vocale e scenica nel ruolo della principessa egizia, illuminando le frasi con intensità drammatica e fascino veramente regale. La scena del giudizio deve essere considerata in questo senso il momento più alto della serata.

Bene le parti di fianco grazie al Messaggero della certezza Carlo Bosi e la Sacerdotessa di Francesca Maionchi. Corretta la prova di Sava Vemić nel ruolo de Il Re.
Brillanti le prove dei primi ballerini Ekaterina Oleynik e Fernando Montaño nella scena del trionfo e di Ana Sofia Scheller nel ruolo di invenzione zeffirelliana di Akhmet.
Applausi cortesi, Aida aspetta ancora il suo trionfo sulle rive del Nilo e sotto le stelle di Verona.