Dopo l’esperimento del Nabucco in stile fake-regietheater dello scorso pandemico festival, l’opera verdiana torna a tingersi con i colori del nostro tricolore, nell‘applaudito allestimento firmato dal regista Arnaud Bernard, che aveva inaugurato la kermesse areniana nel 2017. 

Niente di nuovo sotto il sole dunque, ma è comunque un grande piacere ritrovare uno spettacolo che non si limita a fare da pittorica cornice, ma fornisce anche un apporto teatrale, che seppur non sconvolgente per scavo recitativo (la ripresa un pochino routinaria in questo senso non aiuta), fornisce una dinamicità drammatica utile per un’opera sostanzialmente statica. Le sontuose scene di Alessandro Camera e i bei costumi (che paiono quasi un omaggio allo storico spettacolo firmato – dal già tristemente dimenticato – Gianfranco De Bosio) ideati dallo stesso Bernard, offrono spettacolo per gli occhi e accendono l’applauso a scena aperta come solo al MET e all’Arena avviene…W l’entusiasmo popolare che amiamo. 

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Sul podio questo Nabucco ritrova il condottiero di sempre, il Maestro Daniel Oren, guida ispirata, emozionato ed emozionante nel suggerire al coro nel primo atto le intenzioni espressive della preghiera facendo cenno al cielo con le mani giunte, unico nel richiedere al pubblico il silenzio fino allo spegnersi dell’ultima vibrazione di suono dopo il “Va, pensiero” (conditio sine qua non per l’esecuzione del bis, ignorata da un pubblico sempre più ineducato). Il suo senso del teatro come elemento vivo (e in questa occasione anche più sobrio rispetto all’entusiasmo oreniano che pure amiamo) fanno il resto. 

Sul palcoscenico una compagnia di canto omogenea, capitanata dalla stella di Amartuvshin Enkhbat, reduce dai trionfi (sempre) scaligeri del Rigoletto, e qui eccellente protagonista. La voce è di quelle baciate dal cielo, oro colato, ma pare aver acquistato, se possibile) anche in pregnanza sonora. Con questa voce Enkhbat crea tutto, la propulsione dominatrice del Re tiranno, la sua insicurezza, il suo cammino di redenzione. Qui l’espressività (da sempre suo punto critico secondo molti) è sentita, franca, giocata sulla scolpitura della parola, (non per supplire a mende vocali evidenti con effettacci – oggi giorno questo viene scambiato e purtroppo lodato per “parola scenica”).

Accanto a lui emerge la coppia Fenena e Ismaele composta dalla debuttante Francesca Di Sauro (voce di bel colore, stile elegante e pulizia d’emissione) e da Samuele Simoncini, capace di dare al suo personaggio uno spiccato rilievo eroico. 

All’indisposto Rafał Siwek subentrava Abramo Rosalen (già previsto in repliche successive, alle prese con l’impervio Zaccaria, nel quale ha ben figurato per presenza vocale imponente, bel nitore timbrico e anche giustezza di accenti. 

Efficiente la prova di Maria José Siri nei panni di Abigaille: della sua protagonista si apprezzano i momenti più squisitamente cantabili, dove emerge la natura lirica di un mezzo vocale che ci pare forse non adattissimo a questo tipo di personaggi, che richiedono oltre ad una certa prepotenza e pervicacia espressiva, una bronzea gestione della coloratura drammatica, che non ci pare nelle corde di questa eccellente artista. 

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Puntuale e squillante (domina nei concertati) la Anna di Elisabetta Zizzo, voce che è uno spreco tenere relegata a questi ruoli; inappuntabili gli immancabili Carlo Bosi (Abdallo) e Nicolò Ceriani (Il sacerdote di Belo). 

Alla fine un successo caloroso accoglieva tutti gli interpreti. 

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