La luce del sole si riflette sulle pietre dell’Arena e rimbalza sugli occhi color ambra di Fernando Montaño, il ballerino che in questi giorni sta elettrizzando l’Arena di Verona sulle note dei ballabili del Trionfo di Aida e che da questa sera porterà il suo elegante fascino tra gli ori e gli splendori salottieri della Traviata firmata Franco Zeffirelli. I suoi sono occhi che raccontano di dedizione, sacrifici, gioia, ambizione. Una storia umana e artistica straordinaria, che abbiamo avuto il piacere di ascoltare dalla sua viva voce, in una pausa tra le fatiche scaligere.

Partiamo dalle origini del tuo percorso: vieni dalla Colombia e da un background culturale in cui il balletto era una cosa molto lontana…

Vengo da una famiglia umile, di un piccolo paesino, Buenaventura, un luogo molto “dimenticato”, povero. Però è in quel luogo che è nata la mia passione per la danza, anche se non ho praticato la danza classica fino a quando non ho compiuto dodici anni. Ho scoperto la danza guardando la televisione, un programma per bambini dove li facevano ballare e io ero incantato, copiavo quello che facevano loro. Successivamente con la mia famiglia ci siamo spostati a Cali, una città molto più grande, e lì ho cominciato a giocare a calcio, danzando però allo stesso tempo nei corpi di ballo folcloristici. Ho praticamente appeso al chiodo le scarpette con i tacchetti per le scarpette da danza. A Calì ho frequentato l’Incolballet, l’unica scuola in Colombia dove si possono seguire gli studi artistici ed accademici. Inzialmente non volevano ammettermi perché avevo superato i dodici anni, poi feci l’audizione e lì, una delle quattro stelle del balletto di Cuba ha spinto perché mi prendessero. Ho frequentato l’Accademia per due anni e mi hanno preparato per una competizione a Cuba, in cui ho vinto il secondo premio e una borsa di studio che mi ha permesso di fare il secondo passo della mia vita fuori dalla Colombia. Sono dunque arrivato a Cuba all’età di quattordici anni. Cuba è un paese socialista, e molte cose non le capivo, ma sono orgoglioso di aver fatto i miei studi lì perché ho avuto degli insegnanti meravigliosi. Ho trovato un ambiente di studio e un clima culturale sano, senza tanti lussi o luccichii che possono distrarre dallo studio. Quando sono arrivato a Cuba era appena scoppiato il caso di Elian Gonzales, il bambino che tentò di fuggire attraverso il mare per raggiungere gli Stati Uniti e che fu l’unico sopravvissuto al naufragio. Da quel momento vennero organizzate decine di proteste davanti all’ambasciata americana, e la scuola di balletto era coinvolta negli spettacoli organizzati alla Tribuna Abierta Antimperialista, dove ho avuto la possibilità di conoscere Fidel Castro e sentire i suoi discorsi alle folle. A Cuba ho sofferto molto la lontananza da casa, essere in un paese straniero, da solo, a quattordici anni: però quell’esperienza mi ha aiutato ad essere più maturo rispetto alla mia età. Lì ho ballato e imparato tantissimo, mi sono diplomato e per sei mesi sono entrato a far parte del corpo di ballo di Cuba. In quel periodo i miei genitori avevano perso tutto, la casa e tutti i loro averi, e non riuscivano più a mantenersi. Grazie a Dio nella mia vita è entrato Evandro Villa, il padre di Venus Villa, ballerina cubano-italiana che è come una sorella per me. Evandro è stato come un padre per me e mi ha fatto da sostegno per farmi arrivare in Italia. Sarei dovuto arrivare prima, per partecipare alla competizione di Rieti, ma ottenere il visto a quei tempi era un’impresa praticamente impossibile. Ho avuto tante difficoltà per ottenere finalmente la documentazione. Sono arrivato infine a Milano e dovevo poi spostarmi a Torino. Ora io rido di questa avventura rocambolesca…ma a quei tempi non fu divertente. Venus abitava a Torino in una stanza in affitto in un convento convenzionato con la Caritas, insieme ad un’amica, Simona. Lei non sapeva come fare per farmi stare con loro, anche perché la mia venuta era ancora incerta. Decisero quindi di non chiedere il permesso e di non dire nulla a nessuno. Sono arrivato a Milano e nel tragitto in macchina da lì a Torino abbiamo deciso di stare in silenzio e per cinque mesi ho vissuto nascosto, fino a che non mi hanno beccato. Era molto stressante, perché tutte le mattine e tutte le sere, Venus e Simona, dovevano fare la vedetta per farmi uscire senza problemi, e io come Usain Bolt dovevo sgusciare fuori correndo come un pazzo. Dopo che mi hanno beccato mi sono trasferito da un altro amico e ho vissuto lì fino alla fine degli studi. A Torino ho lavorato con la mia maestra, Niurka de Saa, con la quale ho perfezionato la mia arte, approfondendo l’aspetto più artistico, che deve emergere così, se non di più, di quello tecnico. Dopo uno dei miei spettacoli al Teatro Nuovo di Torino, la direttrice di allora dell’English National Ballet, Jane Hackett, ha invitato me e Venus ad andare a Londra per fare delle audizioni. Noi eravamo entusiasti, perché Londra voleva dire Covent Garden, tutti i grandi del balletto mondiale, e quindi siamo partiti. Durante l’estate siamo stati in Spagna e poi alla Scala per due o tre mesi per preparare l’audizione di Londra. Mi ricordo che il direttore del balletto della Scala, Frédéric Olivieri, ci disse che se ci stufavamo di Londra lui ci avrebbe accolto a braccia aperte. Tuttavia noi facemmo l’audizione per il Royal Ballett e venimmo presi. Sono diventato praticamente il primo colombiano a costruire una carriera internazionale: in Colombia non c’è cultura né del balletto né dell’opera, e anche oggi seppur vi siano più scuole che sfornano talenti meritevoli, difficilmente questi riescono a fare una carriera fuori dal paese. Ricordo la nostra audizione “drammatica” al Royal Ballett: io non parlavo inglese e soprattutto dovemmo ballare senza musica perché la registrazione non funzionò…andò comunque benissimo grazie al cielo. In quel periodo ho perso improvvisamente mia mamma, molto giovane, ed ho vissuto un periodo molto difficile, anche perché non parlando la lingua non riuscivo a comunicare con nessuno, anche durante le prove. L’ambiente della compagnia di per sé non è facile, e spesso si sottovaluta anche la giovinezza degli allievi, a questo si aggiungeva la mia difficoltà di essere un ragazzo venuto da un piccolo paesino della Colombia e arrivato in una metropoli come Londra, dove è facile sentirsi smarriti…senti dovunque tutte le lingue del mondo…è stato un trasferimento complesso. In compagnia ho subito del vero e proprio bullismo: quando sono entrato hanno cominciato subito ad affidarmi dei ruoli, gli altri che erano da anni lì, hanno cominciato a soffrire di invidia e mi hanno preso di mira…mi nascondevano i vestiti e me li facevano ricomparire dopo una settimana. Io stavo soffrendo per la perdita di mia mamma, ero molto nervoso…i primi quattro anni sono stati un periodo negativo per me dal punto di vista emotivo. La mia fortuna è stata la passione per la danza: quando fai quello che ti piace riesci a sopravvivere alle difficoltà. Le cose sono poi migliorate, il clima in compagnia si è acquietato, ho cominciato ad imparare la lingua e ho cominciato a conoscere l’ambiente che ruota intorno alla Royal Opera House. Ho conosciuto quella che io definisco la mia “fata madrina”, Vivienne Westwood, la mia mentore. Nel periodo che avevo trascorso a Milano avevo avuto modo di farmi una mia idea della moda…anche perché voi italiani siete maestri in questo. Con Vivienne ho cominciato a fare dei progetti che connettessero la moda e la danza, ho ballato nelle sue sfilate, ho fatto da modello fotografico per le sue creazioni e ho imparato davvero molto. Londra è anche conoscere la famiglia reale e entrare davvero in contatto con un ambiente che è stimolante al massimo livello. Dall’altra parte quella del ballerino è una vita molto solitaria e faticosa: conosco molti colleghi che si sono infortunati per il troppo stress fisico accumulato o molti che provano un grande dolore ai piedi o alle gambe, dovuto alla fatica di un’arte che spinge il corpo a compiere movimenti inversi alla natura, ai limiti delle sue possibilità. Lo sforzo è enorme e si rischia di pagarlo quando si arriva ad una certa età. Io grazie al cielo non provo queste sensazioni per ora. Io vivo la danza anche come una liberazione del proprio corpo, lo abbiamo visto anche durante la pandemia, quando la gente una delle cose che faceva di più in casa era ballare qualsiasi cosa…la danza rende felici, aiuta il corpo e la mente, è un’arte che arricchisce anche umanamente. 

Per un artista del tuo livello quali sono state le difficoltà della pandemia e del lockdown?

C’erano dei giorni in cui al mattino non trovavi la ragione per alzarti dal letto, ma c’è stato anche un risvolto positivo. Quando è scoppiata la pandemia mi trovavo a Los Angeles e ho sfruttato quel periodo per scrivere un libro che parla della mia storia: per ora è solo in spagnolo, ma sto lavorando per farlo tradurre in inglese e poi chissà, magari anche in italiano.

Tra l’altro parli un italiano eccellente…

Sì, ci provo! Devo dire che l’Italia è stata davvero una parte importantissima della mia formazione artistica ma anche del mio percorso personale. Sono molto legato al vostro paese. 

Torniamo alla pandemia…

Sì, mi trovavo ad LA e grazie al cielo le case americane sono molto più grandi rispetto a Londra e il clima è più favorevole. Dopo le prime settimane, quando ormai tutti ci siamo arresi al fatto che la cosa era più lunga del previsto, ho cominciato a fare online delle classi di ballo aperte a tutti: non balletto classico (per fare quello ci vuole un certo tipo di corpo, una flessibilità corporea che non è per tutti), ma ho deciso di rendere accessibile a tutti la danza, utilizzando la salsa, la bachata, i balli latini che fanno parte del mio DNA. Volevo aiutare le persone che stavano vivendo male quella situazione e che magari attraverso il movimento potevano sentirsi meglio, più serene e allegre. Ho approfittato di quel periodo anche per sviluppare il mio brand di moda, Cachua, una piccola realtà che spero cresca nel futuro. Ho scelto questo nome perché significa “danza in cerchio” nella lingua delle Ande. Ho disegnato molto, ho preparato il lancio e abbiamo già fatto la prima sfilata. Era un progetto che avevo in mente di realizzare più avanti, ma la pandemia mi ha dato il tempo di farlo ora e io non ho voluto perdere quest’occasione positiva che mi si presentava in un momento difficile. L’importante per me è essere sempre positivi: stiamo vivendo un’epoca turbolenta, ci siamo lasciati alle spalle una pandemia e oggi ci stiamo confrontando con una guerra. Non sappiamo realmente cosa ci prospetta il futuro, ma dobbiamo essere sempre fiduciosi, dare sempre il nostro meglio e fare del nostro meglio, senza invidie o entrando in stupida competizione con gli altri. Ognuno di noi ha la sua stella, le sue gioie e le sue qualità che lo rendono unico. 

Hai usato spesso la tua arte anche per scopi benefici e sociali…anche il ruolo del ballerino è cambiato in questo senso, il divismo è in qualche modo finito…

Le persone talvolta non mi capiscono, perché hanno la concezione del ballerino che fa solo e soltanto il ballerino, mentre io mi dedico a tante cose diverse. Io sono fatto così, mi piace usare la mia arte per aiutare gli altri e dare dei momenti di felicità alla gente che magari sta vivendo dei dolori personali o ha bisogno di forza per superare una difficoltà. Non mi dimentico mai da dove sono venuto e trovo che davanti alle difficoltà della vita donare anche solo due ore del proprio tempo per regalarle agli altri non sia affatto un sacrificio o uno spreco di tempo. Organizzo spesso degli spettacoli a Londra per raccogliere dei soldi in favore dell’infanzia o di altre cause che mi stanno a cuore. A Bath l’università mi ha conferito la Laurea honoris causa nelle Arti, non solo per la mia carriera al Covent Garden, ma anche per il mio impegno umanitario, che io considero fondamentale nella mia vita. Noi artisti abbiamo il dovere di utilizzare il nostro talento per dare luce a cause importanti e per ispirare gli altri ad aiutare. 

©Zakaria Chelidze

Comunque c’è un abbattimento della separazione tra l’etoile e il pubblico che esisteva prima di Nureyev, il primo danzatore a diventare un personaggio popolare tout-court…

Penso che ci sia ancora molto da fare: il balletto rispetto ad altre arti e al mondo dello sport, rimane ancora un mondo chiuso nella sua gabbia dorata, con un pubblico piuttosto ristretto. Tuttavia, ho osservato che dopo la pandemia, è suonata una sveglia per il mondo dei ballerini, che si sono resi conto di dover essere più presenti e attivi nel quotidiano. Spero si vada sempre di più in questa direzione, entrando sempre più in contatto con il pubblico, il quale può apprezzare e comprendere la difficoltà della vita di un danzatore nella quotidianità. Non è soltanto infilarsi le scarpette e correre sul palco, è un lavoro su sé stessi anche dal punto di vista psicologico, spirituale direi. E’ un’arte che combina l’atleticità del corpo e l’artisticità dell’anima: questo spesso non arriva e spero che invece oggi si possa riuscire a far capire questo al pubblico. Il balletto è emozione, sacrificio, fatica, passione…oltre alla tecnica c’è di più. 

Veniamo all’ultimo capitolo della tua carriera: il debutto all’Arena di Verona. Emozioni e difficoltà. 

E’ stata un’esperienza assolutamente coinvolgente. Dietro le quinte di ogni spettacolo ci sono i drammi dell’ultimo momento, le crisi divertenti che precedono l’andata in scena…in Aida ho vissuto un’esperienza divertente con il copricapo che prevede il mio costume, un oggetto davvero ingombrante! (ride). Quando ho visto per la prima volta questo palcoscenico sono rimasto impressionato dalla sua grandezza, mi sono sentito un gigante! Esibirsi in un teatro che ha migliaia di anni, camminare in un luogo in cui chissà quante anime sono passate e quanti fatti sono accaduti. Si percepisce l’energia e la forza di queste pietre. Inoltre non avrei mai pensato di ballare in un posto così enorme, maestoso. Non avevo mai ballato nell’opera lirica, una forma d’arte che io apprezzo molto (ho la fortuna di poter regolarmente vedere gli spettacoli d’opera della ROH e di conoscere gli artisti). Sono anche un po’ invidioso dei cantanti lirici, perché hanno una vita artistica molto più lunga rispetto a noi ballerini! (ride) In ogni caso è pazzesco vedere quante persone lavorano dietro questo spettacolo! E sono stato felice di lavorare con dei bravissimi ballerini italiani…un’esperienza davvero bella per me, come artista e come persona. Essere a Verona è una gioia, la città di Romeo e Giulietta…sono andato a visitare i luoghi che hanno ispirato Shakespeare, e ho scoperto le meraviglie di questa città piena di storia che ti riempie il cuore e ti ispira anche nel fare la tua arte. 

Aida ha la coreografia di Vladimir Vasiliev, nata nel 2002 per due stelle, Myrna Kamara e Roberto Bolle…

Sì, un onore ricalcare i passi di questi grandi danzatori. Io ho cambiato un po’ la coreografia originale, per renderla ovviamente più personale, come credo sia giusto. Ho cercato di esaltare il lato selvaggio del mio ruolo: a Londra spesso mi hanno detto che sono un po’ selvaggio…io non credo, perché in realtà sono una persona calma e tranquilla, ma posso giocare a farlo. D’altronde interpretare un ruolo vuol dire anche diventare un altro e scoprire nuovi lati di sé. Spesso la gente non ti immagina in un determinato carattere, invece spesso è più semplice vestire i panni di qualcosa che è più lontano da noi…è bello non fare sempre il principe! Per questo danzare in Arena nell’opera è così speciale!

Sarebbe bello riportare un titolo di balletto vero e proprio in Arena…

Due mesi fa ho fatto in Georgia, al Teatro dell’Opera di Tbilisi, Otello, un balletto del compositore georgiano Alexi Matchavariani, che non si faceva da più di cinquant’anni. Un balletto veramente intenso, drammatico, per non parlare della complessità psicologica del personaggio. Spesso il pensiero associato ad Otello è solo all’opera di Verdi, ma questo pezzo invece meriterebbe un palcoscenico importante, proprio come quello dell’Arena…credo sarebbe ideale.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Abbiamo accennato al tuo libro e sarebbe bello parlarne di più, perché scrivere la propria vita è quasi un esercizio di autoanalisi, che può essere anche molto doloroso: senti di aver perso qualcosa nell’essere andato via presto da casa tua e qual è in generale la riflessione che hai fatto sul tuo percorso?

Tirando le somme ho vissuto più a Londra che non in Colombia. Credo che essere andato via così presto mi ha portato a maturare molto più in fretta e ad essere molto più concentrato sui miei obiettivi e su quello che davvero volevo realizzare. All’età di quattordici anni, quando stavo preparando i documenti per venire in Italia, un giornalista ha scritto il primo grande articolo su di me (cercavo anche l’aiuto e l’appoggio del governo per poter andare a studiare fuori), e lui mi ha detto che avrei sempre dovuto scrivere un diario per tenere conto di tutto quello che facevo. Io non ho davvero tenuto un diario, ma ho sempre scritto delle mie annotazioni su un quadernino che ho sempre tenuto con me. Nel momento in cui mi hanno detto che ero un selvaggio, che non avevo una linea classica, che ero sostanzialmente inadeguato, mi sono sentito tremare la terra sotto i piedi. Mi sono chiesto: ma se non sono adatto al balletto, a cosa lo sono davvero? Dove devo andare? In quel momento ho deciso di raccogliere tutte le mie note e scrivere un libro, che è autobiografico ma non autocelebrativo, ma ho voluto raccontare la storia dei sacrifici che ho fatto, delle persone che mi hanno aiutato, volendo dare anche dei consigli ai giovani ballerini e ai genitori che devono supportare i loro figli nell’intraprendere questo difficile e bellissimo percorso. I miei genitori erano totalmente estranei al mondo della danza, ma mi hanno sempre appoggiato, fino a perdere tutto sul serio. Voglio ispirare con la mia storia, voglio dire loro che con i sacrifici, la volontà e la passione autentica si possono raggiungere degli obiettivi importanti. Così è nato il libro. Per quanto riguarda la difficoltà nello scrivere queste cose, devo dire che è un esercizio molto positivo, è una pulizia di tante cose che ti porti dietro per anni: si ride, si piange, ci si libera di tutto. E’ bello anche diventare detective della propria vita: ho dovuto chiedere a mio papà di raccontarmi per esempio come ha conosciuto la mamma, e tante cose della famiglia che non sapevo. Ho voluto aprirmi con i miei lettori, raccontare tutta la mia avventura fino al mio debutto. Scriverò una seconda parte partendo dal mio debutto all’Arena di Verona (ride)…sto vivendo un periodo molto felice nella mia carriera (non solo come ballerino, ma anche come “neonato” stilista e ho anche dei progetti come attore) e anche come uomo. Ultimamente mi sto impegnando moltissimo in progetti per salvaguardare gli oceani e l’ambiente marino: sono stato sulle rive dell’Oceano Pacifico, e cerco di aiutare con le mie possibilità le attività mirate alla protezione delle sue ricchezze. 

L’Italia non è molto presente nella tua agenda, però ti aspettiamo di nuovo presto!

Io amo l’Italia e ho sempre pensato che da vecchio mi trasferirò qui, in un bel posto, per vivere i miei ultimi anni! 

Grazie a Fernando Montaño e In bocca al lupo!

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