Pochi sono oggi i cantanti che hanno superato il limite del palcoscenico dell’opera lirica per diventare idoli amati dalle folle, universalmente riconosciuti per il loro carisma magnetico. Roberto Alagna è uno di questi, è un divo nel senso più nobile di questa parola tanto abusata, è un’artista capace di accendere l’atmosfera di un luogo anche soltanto con la sua presenza e la sua voce. E la sua magia è doppia quando il suo potere si sprigiona in luogo dalla ritualità mistica come l’Arena di Verona, dove ha debuttato (finalmente!) lo scorso anno come Turiddu in Cavalleria rusticana e Canio in Pagliacci. Ed è proprio tra le pietre dell’anfiteatro veronese che lo incontriamo, tra una recita e l’altra di Carmen, dove veste ancora una volta i panni di uno dei personaggi a lui più legati, Don José.
Il debutto all’Arena di Verona: una tappa raggiunta l’anno scorso, quindi arrivando qui dopo un’esperienza di quasi quarant’anni sui palcoscenici di tutto il mondo…forse però era il momento più giusto…
Devo dire onestamente che l’invito per cantare in Arena è arrivato ogni anno, già quando venni per fare Pagliacci nel 2002. Andai in Arena con Giorgio Benati e devo dire che non ho amato molto il luogo, più che altro non lo trovavo ideale per cantare. Sono tornato come spettatore altre volte e sono rimasto un po’ deluso, non si respirava l’aria di un vero teatro. Devo essere davvero sincero nel dire che non sono stato sedotto dal luogo. Inoltre ho sempre dovuto rifiutare gli inviti per l’Arena perché avevo il mio appuntamento fisso con il Festival di Orange, dove si era creato un vero sodalizio. Il Teatro Antico di Orange è un vero teatro, nato in origine per la prosa e quindi con una struttura acustica già conformata per sentire bene le voci, anche parlate. Per me Orange ha significato la creazione di un mio mondo, un luogo mistico dove andavo a provare me stesso, a capire quante forze mi restavano alla fine di una stagione. Cantare a Orange non è comunque facile, perché ci sono serate dove sferza un forte vento maestrale: molti colleghi abituati all’Arena non si trovano bene a cantare ad Orange. Ho rifiutato tante volte anche Salisburgo per cantare ad Orange: amavo stare lì, affittavo una bella casa, portavo tutta la famiglia, loro si godevano la vacanza, io andavo a fare le mie prove, le mie recite. Quando ho incontrato Aleksandra lei aveva già cantato in Arena, adorava la città, i luoghi, l’atmosfera, e mi ha convinto a provare una volta a cantare qui. Quando Cecilia Gasdia mi ha invitato ho finalmente accettato, ed è scattata la scintilla, prima che con l’Arena, con la città: mi piace vivere la città, godere di questi luoghi, ho anche stretto delle amicizie. Sono tornato con grande piacere quest’anno! Devo ringraziare innanzitutto mia moglie e poi Fondazione Arena per l’invito!
Ringraziamo tutti Aleksandra per la sua opera di convincimento!

Parliamo dei ruoli che hai affrontato: Turiddu, Canio, Don José…tutti uomini che hanno un rapporto complicato con il sesso femminile e il cui amore sfocia nella violenza…Qual è la tua visione di queste figure?
A parte la piega violenta, tutti i rapporti uomo-donna sono complicati (ride, n.d.r.)! Turiddu io lo vedo come una vittima lui stesso della violenza: viene prima tradito da Lola (la donna con cui avrebbe dovuto sposarsi), poi Santuzza che rivela ad Alfio cosa è successo tra lui e Lola portando al duello finale, e infine Alfio che lo uccide buttandogli la terra negli occhi. Canio è un poveraccio che arriva alla follia, in un mondo in cui non esisteva il divorzio e dove l’onore era un valore importante. Lui ha raccolto questa ragazza morta di fame dalla strada, l’ha sposata, le ha dato un lavoro, forse è diventata anche madre di suo figlio (così sembrerebbero riportare le cronache del processo che il padre di Leoncavallo seguì e che il compositore prese ad ispirazione). Anche lui è una vittima, peggio di Otello, il quale ha solo il sospetto che Desdemona lo tradisca, mentre Canio ne ha la certezza, ha visto tutto con i propri occhi. Poi si scatena anche questo suo dilemma interiore, un conflitto che lo divora da tutta la vita, quello di essere un uomo e di essere un pagliaccio (nella commedia dell’arte è il buffone della storia)…lui non si sente più umano, il vestire i panni di un personaggio “senza anima” sulla scena lo ha interiormente distrutto. Per questo motivo trovo che sia lui a dover dire “La commedia è finita”, come lo voleva Leoncavallo…questo è il vero tema di tutta l’opera. Finzione e realtà che si confondono nella sua mente e lo portano all’estremo. Josè è ancora diverso. Io lo ritengo il personaggio principale dell’opera, così come nella novella di Merimée, è quello che ha la più grande evoluzione psicologica ed attoriale di tutta la vicenda.
Sia Turiddu che José hanno (in modo diverso) anche la figura della madre che in qualche modo incombe sulle loro decisioni di vita…la spinta verso il sesso e il richiamo della famiglia…
Sì, vivono però questa cosa in maniera diversa. Turiddu con sua madre ha un rapporto quasi normale, perché lei non ha da perdonargli nulla, anzi è Turiddu che chiede a Mamma Lucia di occuparsi di Santa, una donna che lui ha amato brevemente e che però è addolorato di dover lasciare (conscio di dover andare a difendere il proprio onore, forse invano). Turiddu è molto nobile nei sentimenti. Josè non lo è altrettanto. Chiede perdono a sua madre, è un uomo che ha ucciso prima di entrare nelle fila dell’esercito, è diventato un militare proprio per sfuggire alla prigione, che era l’altra opzione disponibile. Essere basco e dover entrare in servizio di guardia a Siviglia è una punizione non da poco. José era l’uomo di famiglia (il padre era già morto), sarebbe dovuto essere colui che si occupava della casa, della mamma e anche di Micaëla, un personaggio che Bizet ha creato ad hoc.
Forse per rappresentare una sorta di voce della coscienza di José?
Io, penso che piuttosto che una coscienza, Bizet ha voluto mostrare con il personaggio di Micaëla la differenza tra una donna angelo e una donna diavolo. Era pericoloso (e i fatti lo hanno dimostrato) portare in scena una zingara, con questo temperamento e questo senso di libertà. Una libertà che lei canta, ma che in realtà non possiede per nulla: nel libro è una donna sposata e suo marito la utilizza, insieme alle sue compagne, per contrabbandare merce. Quando Carmen incontra quest’uomo che ha già ucciso, la attrae subito, pensa che potrebbe essere la persona che può salvarla da suo marito, che può regalarle la tanto agognata libertà. Nel libro José ammazza tutti: il marito, il torero, Zuniga, un altro soldato…è un uomo terribile! Un uomo molto religioso, affezionato alla famiglia, alla madre, che abbraccia uno stile di vita assolutamente violento. Vedo una forte somiglianza con Athanaël della Thaïs di Massenet: anche José ha una dimensione eremitica, si è rifugiato tra le montagne, così come il monaco di Massenet si è rinchiuso nel silenzio. Lui torna per salvare Carmen e salvare sé stesso, non per niente dice: “Ah! Laisse-moi te sauver, et me sauver avec toi…”, o quando pronuncia queste parole “Pour la dernière fois, démon” è come se volesse esorcizzarla. E’ un aspetto molto interessante e spesso trascurato: lui non la sta pregando di tornare con lui, come Athanaël con Thaïs, sta cercando di salvare entrambi e di giungere ad una redenzione dell’anima.

Com’è cambiato il tuo José negli anni, con la tua evoluzione di uomo e di artista, e attraverso le produzioni che hai affrontato?
E’ sempre più profondo. Quando l’ho debuttato nel 1999 lo sentivo come un altro personaggio: un giovane con degli scatti violenti in breve. Ora ho ricercato tanto dentro questo personaggio e trovato una profondità psicologica nuova. Ho capito che Carmen ama davvero questo uomo, fino alla fine, al contrario di tutto quello che si dice del loro amore. E’ una zingara, è superstiziosa e ha quindi paura di quello che ha visto nelle sue carte. Sa di non poter rimanere con lui, ma dall’altra parte tiene con sé fino all’ultimo l’anello che le ha donato: perché lo farebbe se non lo amasse? Di conseguenza a tutti questi ragionamenti il mio José si è profondamente evoluto. E’ stato davvero importante capire anche la natura del personaggio di Carmen, della sua falsa libertà e della sua spregiudicatezza. Ha paura di quest’uomo, ha paura delle carte, ha paura della morte…non è veritiero quando spesso le regie mostrano Carmen che si getta verso Don José quando estrae il pugnale. Lei fugge, è scritto anche nello spartito. Si vede bene questo nella Carmen di Charlie Chaplin, ovviamente con il risvolto caricaturale dovuto. Anche nel film Gli amori di Carmen con Rita Hayworth la scena dell’assassinio di Carmen è costruita molto bene, con Glenn Ford nei panni di Don José, che riesce finalmente ad ucciderla e dopo che l’ha colpita passa un gatto nero, la superstizione che incombe.
Sei d’accordo con la definizione di Carmen come una corsa verso la morte o la salvezza?
Credo sia un clichè, come quello dei tre soprani per Traviata o delle migliori quattro voci per Trovatore o Ernani…sono frasi che forse non ha mai detto nessuno e che noi ripetiamo. Carmen è una corsa verso la vita, nessuno dei due vuole morire…anzi nel finale José sente di averla salvata uccidendola, e per questo io in scena faccio il gesto di ritrovare l’anello e di rimetterlo al dito di Carmen, come se fosse un matrimonio, un’unione per l’eternità, che ricorda un po’ quella di Esmeralda con Quasimodo.
Quando si chiude il sipario la vita di José è finita? Sente di aver raggiunto anche la propria di salvezza?
La sua vita è finita nel senso che lui è arrivato a quello che voleva, l’eternità insieme a lei. E’ un po’ come l’amore di Romeo e Giulietta, il loro veleno è il demonio che è in Carmen. Un amore impossibile a causa della superstizione, della consapevolezza che il destino non li vuole felici. Vogliono sfidare la sorte, come Giulietta e Romeo o come Radames e Aida: la morte è il passaporto per l’eternità.
Recentemente hai affrontato per la prima volta anche un altro personaggio dalla forte essenza mistica: Lohengrin…
La cosa che mi ha colpito di questo personaggio è la sua somiglianza con Gesù Cristo. Lohengrin è un figlio di Dio, che giunge in un mondo in cui gli uomini hanno perso l’orientamento, la fede. Il suo arrivo è come la discesa di Mosé dopo aver ricevuto le tavole della legge, quando trova il suo popolo obnubilati dal culto pagano. Il cigno di Lohengrin è l’Agnello di Dio. Lohengrin è un portatore di fede, di luce, in un mondo buio di cui lui sarà il salvatore. Non parla mai d’amore reale, carnale, il suo amore è sempre platonico, spirituale. Non rivela chi è o da dove arriva, chiede ad Elsa di credere in lui, di compiere un vero e proprio atto di fede. Elsa non riesce infine ad avere fede fino in fondo in quest’uomo, anche lei casca preda della tentazione del demonio, per questo Lohengrin se ne deve andare, come Cristo sulla croce. La risurrezione sarà la metamorfosi del cigno in Goffredo, nuovo re. Un personaggio molto molto interessante.
Ci sono altri ruoli wagneriani o tedeschi che ti piacerebbe affrontare?
Prima di essere un cantante io sono un appassionato e quindi amo tutto il repertorio, la questione è che anche io comincio ad avere la mia età…non c’è tanto tempo per affrontare nuovi ruoli. Vorrei godermi di più la mia famiglia, il mio tempo, ho lavorato tanto e l’anno prossimo festeggerò quarant’anni di carriera. Per questo non ho un grande desiderio di studiare molti ruoli nuovi. Farò comunque qualcosa di nuovo e diverso per me: tra poco affronterò il musical, la commedia musicale, interpretando il ruolo di Al Capone, alle Folies Berger di Parigi, per ben 90 recite tra gennaio e maggio 2023. Bisogna però stare molto attenti, perché ad una certa età si rischia di diventare ridicoli sul palcoscenico, è inutile lottare contro il tempo. Trovo di aver fatto già molto, molto più di quello che pensavo, ho affrontato ruoli che non avrei mai creduto di poter cantare, andando oltre le possibilità che ritenevo di avere, arrivando ad interpretare Otello o Lohengrin per esempio! Ringrazio il cielo che mi ha mantenuto così sia vocalmente che fisicamente.
Noi ti vogliamo ancora per molto, mi raccomando!
Grazie! Non si può mai sapere di che cosa è fatto il domani. In questo mestiere io non ho mai chiesto nulla, non avevo ambizioni e sento che tutto quello che ho ricevuto è stato un regalo. Devo essere grato per la fortuna che ho avuto. Ho cantato tantissimi ruoli, personaggi bellissimi anche sconosciuti come Le Jongleur de Notre-Dame di Massenet, Fiesque di Lalo, Cyrano de Bergerac di Alfano, e anche nuove creazioni come il protagonista di Le Dernier jour d’un condamné di mio fratello David Alagna o Marius in Marius et Fanny di Vladimir Cosma. Ho conosciuto anche il successo discografico, ho fatto dei film, musica leggera con grande successo, mantenendo sempre l’opera…sono soddisfatto e se ho ancora qualche anno per godere ancora del palcoscenico, avendo buona salute ed essendo in buona forma vocale e fisica sarà già un grande regalo.

I tuoi miti quando hai cominciato erano Mario Lanza ed Enrico Caruso, cantanti che hanno costruito la loro carriera in modo simile al tuo, oltrepassando i confini della lirica…com’è cambiato il mito del tenore e qual è il ruolo del Divo nel mondo del teatro musicale di oggi?
E’ cambiato tutto, il mondo in sé e per sé: è cambiata l’attitudine, l’atmosfera nei teatri. Quando io ho iniziato venivo dal cabaret, dove avevo fatto la mia gavetta e avevo iniziato ad avere una bella fama, e sono poi arrivato all’opera molto presto, all’età di vent’anni. Tutto oggi è cambiato, anche il rispetto per il cantante. Quarant’anni fa tutti andavamo alle prove con il completo, la cravatta, tra colleghi ci si dava del lei, c’era tutto un’altro rispetto davvero. Una volta dal comprimario al protagonista tutti stavano in albergo e questo cambiava anche il tipo di rapporto che si creava: si stava insieme, c’era convivialità, era un’aspetto che a me piaceva molto…si diventava una famiglia, ci si rincontrava, i figli crescevano. Oggi appena hai finito di cantare vai sul telefonino, non si parla con gli altri, finita la prova si va a casa, tutti hanno gli appartamenti, si mangia da soli…un altro mondo. Per esempio ricordo che quando cantavo alla Scala c’era “l’avvisatore” che al mattino ti chiamava per sentire come stavi, eravamo come dei cavalli da corsa, si sentiva il sostegno del teatro per il cantante. Oggi non c’è più tutto questo, si fanno le prove generali aperte al pubblico, pure il giorno prima della prima, o si finisce l’italiana al pomeriggio e si continua la sera con prove di regia e magari il giorno successivo alle dieci già si deve cantare un’altra prova a piena voce…è pericoloso per un cantante. Oggi costruire una carriera è molto più difficile, i cantanti vengono consumati, non possono parlare perché non appena lo fanno vengono rimpiazzati da qualcun altro, i cachet vengono abbassati. Lo abbiamo visto con il Covid, dove i teatri hanno chiesto ai cantanti di diminuire i loro cachet: ma i teatri hanno continuato a ricevere le proprie sovvenzioni, mentre sono proprio i cantanti a non aver guadagnato nulla! Sono piuttosto contrario a questo atteggiamento che porta sempre a svalutare i cantanti. La mia carriera è fatta e non devo lottare, ma penso che per le generazioni future si prospetta un percorso sempre più difficile, vista la considerazione che ci è dovuta oggi…lo si vede anche nelle locandine dove spesso ci sono solo i nomi del regista e del direttore d’orchestra. E’ un vero peccato.
In virtù di tutto questo, quali sono i consigli che daresti ad un giovane?
Non do mai consigli a nessuno, perché oggi i giovani hanno molta più possibilità di quello che avevamo noi un tempo. Intendo dire che attraverso internet, youtube, e tutti questi canali, hanno a disposizione delle risorse di studio praticamente illimitate. Io sognavo di ascoltare le voci dei tenori, oggi invece basta accendere YouTube e puoi ascoltare, analizzare qualsiasi voce di qualsiasi epoca. C’è la possibilità di una preparazione musicale molto più alta che in passato, ma questa facilità fa sì che ci sia meno volontà di ascoltare e studiare. E’ un peccato perché si perde la passione anche nell’ascoltare tutto. Io ancora oggi sono un ascoltatore vorace, amo il canto e amo scoprire sempre cose nuove. Il consiglio penso sia anche pericoloso, perché spesso dando un consiglio crei un problema. Come diceva il grande Giuseppe Di Stefano, che per me è un filosofo dell’arte del canto: “Non mi date consigli, perché so sbagliare da solo”. Questa è la verità, il canto è un lavoro da fare su se stessi, una ricerca. Non ho mai chiesto consigli a nessuno, forse questo mi ha salvato, non lo so….qualcuno lo prende come un segno di arroganza, ma non lo è…sono sempre stato anche molto timido nella mia vita.
Grazie a Roberto Alagna e Toi Toi Toi!