Si sa, il teatro può essere luogo dei più strampalati imprevisti e le sostituzioni improvvise sono all’ordine del giorno. Così è successo il 2 ottobre alla recita pomeridiana di Norma al Teatro Grande di Brescia, dove l’eroico direttore artistico, il Mº Alessandro Trebeschi, ha dovuto dalla sera alla mattina tirare fuori dal cilindro un soprano per le parte della protagonista. La titolare della parte aveva già dovuto rinunciare per malattia la sera della prima, il venerdì, ma ci si ritrovava ora a dover rimpiazzare pure la sostituta, anch’essa indisposta. Il nostro plauso va dunque a lui, ai suoi nervi saldi (Norma non è proprio un ruolo che tutte le artiste hanno in repertorio, o che si può improvvisare così facilmente), ma anche ai nervi saldi di Renata Campanella, sopraggiunta a sostenere il monumentale cimento. Sgombriamo subito la “sacra selva”: il soprano non ci sembra possedere la vocalità adatta al personaggio in natura, non possiede né lo slancio drammatico necessario ad infuocare gli accenti dei recitativi belliniani, né l’arte della vocalista. Tuttavia si difende bene dagli ostacoli del personaggio, giungendo piuttosto onorevolmente al termine dell’opera. 

Difficoltà nella difficoltà l’integralità in cui veniva presentata l’opera, con tanto di cabaletta del I atto con da capo e con variazioni. La direzione del Mº Alessandro Bonato si dimostrava intelligente, degna di un concertatore maturo, moderno nella sensibilità del trattare il repertorio del Belcanto, ma con il giusto sguardo sia alla tradizione (l’opera deve come tutte le forme d’arte essere coinvolta nel flusso di cambiamento della storia) che al senso teatrale del dramma, accompagnando con trasparenza strumentale i passaggi più intimi e giustamente accendendosi quando lo spirito bellico della partitura lo richiede. Bene lo segue l’Orchestra I Pomeriggi Musicali Di Milano, nonostante qualche perdonabile velatura. 

©Favretto

Accanto alla coraggiosa Campanella agivano il Pollione di Antonio Corianò e l’Adalgisa di Asude Karayavuz. Il primo possiede buon materiale vocale e tenta di riportare la vocalità del personaggio alla tradizione (assolutamente legittima e giustificata) del tenore lirico-spinto/drammatico. Perché la sua prova risulti completa sarebbe necessario però un lavoro tecnico per affinare il canto legato (si nota un’eccessiva muscolarità) che (di conseguenza) il registro acuto. Il mezzosoprano è un’Adalgisa temperamentosa, che sovrasta la protagonista per passione e verità interpretativa. Questo la porta talvolta ad essere fin troppo vocalmente generosa, mentre in alcuni momenti si sarebbe desiderato un canto più denso di colori e pieghe espressive. 

Alessio Spina è un Oroveso in crescita durante la recita, pur non possedendo in ogni caso la cavata necessaria per esprimere appieno l’essenza del personaggio. 

Completavano il cast Raffaele Feo (Flavio) e Benedetta Mazzetto (Clotilde). 

Resta da dire dello spettacolo di Elena Barbalich, affiancata da Tommaso Lagattolla per le bellissime essenziali scene e i lineari ma eleganti costumi e Marco Giusti per le efficaci luci. Quella della Barbalich è una Norma dipinta nel simbolismo, in un’atmosfera primitiva quasi astrale. Nella sua visione della protagonista viene esalta la spiritualità, il suo paganesimo interiore, intenso come l’essere un micro/macro universo in cui convivono l’essenza di capo politico/religioso, quello di donna amante e tradita, e quello di madre: una trinità esistenziale ed esistenzialista, attorno alla quale gli altri (terreni e terrigni) agiscono e sbagliano umanamente. 

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