Il Trovatore è uno dei dilemmi drammaturgici che assalgono i melomani di tutto il mondo: “basterebbe ascoltare e capire attentamente le parole del racconto di Ferrando!” mi dicevano giorni fa, e piuttosto giustamente. Però il pubblico fatica ad accettare alcuni aspetti: Leonora che scambia un uomo per un altro, Azucena che commette uno scambio ben più tragico gettando nel fuoco suo figlio al posto del figlio del vecchio Conte di Luna. Episodio spiegabile con una diagnosi di schizofrenia o bipolarismo, oppure accettandolo come mistero della fede melodrammatica. Tipica chiusa: “l’importante è la musica”. Si, come no. 

In realtà il limite tra il melodramma e la commedia è spesso piuttosto labile e sottile. In ogni caso quello che più disturbava dell’allestimento in scena in queste settimane al’Opernhaus Zürich (la presente è la recensione della recita del 6 ottobre 202), firmato Adele Thomas (una co-produzione con la Royal Opera House di Londra) è la volontaria ridicolizzazione del dramma, con demoni ridacchianti, creature che paiono uscite dal signore degli anelli, soldati imbranati da film muto, tanto che ad un certo punto ci si chiede se si sta assistendo al Trovatore o a uno di quei memorabili (e geniali) spettacoli del trio Marchesini-Solenghi-Lopez. Nulla è preso sul serio, il pubblico ride beatamente e a noi il cuore si spezza di rabbia. La storia straziante di Azucena, l’amore alato e sublime di Leonora e Manrico, la bramosia e il fascino del Conte di Luna, insomma il culmine e la fine del teatro romantico non meritano questo. 

Si aggiungano i brutti costumi e l’unica scena (una scala, per di più scomoda, che originalità) di Annemarie Woods e il quadro è completo. 

Musicalmente l’opera si riscattava grazie alla bella prova di coro (diretto da Janko Kastelic) e orchestra, guidata dal gesto sicuro di Paolo Carignani, che optava per una versione dell’opera con quasi tutti i tagli di tradizione: scelta forse discutibile ma realizzata con indubbia autorevolezza e efficace senso del teatro. Attenzione solo a non eccedere in teatralità divenendo eccessivamente militareschi e meno sensibili alle aperture più “liriche” della partitura.

Citati i buoni Jeremy Bowes (un vecchio zingaro), Maximilian Laurie (un messo), Saveliy Andreev (Ruiz) e Bożena Bujnicka (Ines), non possiamo purtroppo promuovere a pieni voti il Ferrando di Robert Pomakov, tecnicamente non abbastanza ferrato per affrontare le insidie della pagina di apertura e timbricamente piuttosto ruvido. 

Nemmeno il Manrico di Stefano La Colla convince pienamente: la voce è sempre bella, tanta, generosamente esibita, ma si sa che la parte del Trovatore verdiano è infida nella sua richiesta di equilibrio tra lirismo ed eroicità e il tenore italiano pare arrivare piuttosto stanco sia all’aria che la cabaletta del III atto. 

La Azucena di Yulia Matochkina emerge per splendore vocale, una freschezza di mezzi quasi sfacciata che le frutta un brillante successo personale. Ancora probabilmente non possiede la compenetrazione espressiva di altre Azucena (anche attuali), ma c’è pure da dire che in questo totale guazzabuglio registico lei si impegna con tutte le sue forze per dare dignità al personaggio. 

I fiati infiniti, la virilità, ma anche la profondità espressiva del canto e dell’interpretazione del Conte di Luna di Artur Rucinski conoscono oggi ben pochi paragoni. L’avevamo già sentito nel ruolo più volte, ma ora è giunto ad una perfezione ed una maturità tecnico-artistica totale. 

Elena Mosuc possiede tutti gli stilemi più nobili e superbi del Belcanto, di cui è davvero regina oggi. Alla capacità di esibire colorature superbe e scolpite, filati e sfumature da togliere il fiato e legato ineccepibile, si aggiunge un canto che si è fatto ora ancora più intenso, sia per pregnanza timbrico-sonora, ma soprattutto per una carnalità espressiva che diventa veicolo potente per dipingere una Leonora intensa, sospesa tra l’incanto sospeso e celestiale di pagine come “D’amor sull’ali rosee” e la tensione vibrante e tragica di un momento statuario come il Miserere.

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