Pochi sanno che nel 1883 la prima de La Gioconda alla Scala vide l’ingresso per la prima volta nel tempio della lirica meneghino della luce elettrica. Per la prima volta i palchi, i velluti e gli ori di quel teatro si illuminarono di innovazione. Allo stesso modo Amilcare Ponchielli con il suo drammone veneziano superò il Rubicone del teatro verdiano, traghettando l’opera lirica nel Verismo. Lo stile “scapigliato” delle parole di Arrigo Boito (Tobia Gorrio) insieme alla musica densa, avvolgente e travolgente di Ponchielli inventano il teatro “vero”, un teatro in cui la storia (intesa come epoca) rimane alle spalle e davanti a noi emergono i personaggi con la loro forza e la loro fragilità. Questo sembra essere l’interesse anche del regista e scenografo Filippo Tonon, che realizza una Gioconda di affascinante presa visiva, ma soprattutto curata nel delineare le relazioni e reazioni psicologiche di questi personaggi. Ambientando l’opera nel Tardo Ottocento egli trova nella Venezia di quel periodo una suggestione pari a quella della seicentesca veste originale, poiché ne rintraccia il simile decadentismo, il nebbioso mistero che si affaccia sull’opulenza dei suoi salotti. Le atmosfere ci rimandano quasi a quel Senso di Luchino Visconti, ispirato d’altronde all’omonima novella di Camillo Boito, il fratello maggiore di Arrigo. Si rintracciano evidentemente anche delle ispirazioni a certe messinscene di De Ana, di cui Tonon è stato braccio destro per molto tempo: certe architetture neoclassiche ci ricordano spettacoli nati sui palcoscenici veronesi, come la Norma del regista argentino e quell’altare/sepolcro nel III atto che non può non riportarci alla memoria il II atto della Tosca areniana. Tonon ha realizzato anche un lavoro approfondito sulla psicologia dei suoi personaggi, non limitandosi ad un arredare e a creare dei quadri, ma curandone in modo piuttosto analitico gli intrecci di sguardi e movimenti. Si dimostra anche eccellente nel gestire le masse, capacità oggi quasi del tutto sconosciuta ai registi “moderni”. Splendono di luce propria i costumi firmati da Tonon e da Carla Galleri, preziosi alleati nella visione complessiva dello spettacolo.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Musicalmente va segnalato il grande valzer della compagnia di canto, con le sostituzioni rispetto a quanto annunciato di Barnaba, Laura e infine quella travagliata della protagonista. Il Maestro Francesco Ommassini sul podio pareva non trovare in questo titolo le condizioni migliori per mettere in luce i suoi indubbi meriti, faticando non poco a trovare una quadratura tra buca e palcoscenico. Il coro non si copriva in quest’occasione di gloria, perché mancando di una guida ferrea e sicura si trovava a doversi gestire quasi autonomamente, e in una partitura articolata come questa non è compito affatto semplice. Eccezionale invece la prestazione del Coro di voci bianche A.Li.Ve. diretto da Paolo Facincani.

Ricordato il funzionale apporto di Dario Righetti (Una voce), Jacopo Bianchini (Un’altra voce) e Francesco Azzolini (Un cantone), appaiono autentici lussi Alessandro Abis e Francesco Pittari, nei panni rispettivamente di Zuane e Isepo.

Agostina Smimmero ottiene grande successo personale nel ruolo della Cieca, interpretato con voce importante e giusto pathos. Scarseggia invece il pathos nella Laura di Agnieszka Rehlis, mezzosoprano piuttosto chiaro e dal volume non debordante, pur corretta nel delineare le belle linee vocali che Ponchielli affida al suo personaggio. Problematico analizzare la prova della protagonista, Monica Conesa (salvatrice della prima, ma già prevista nella seconda compagnia), la quale conferma di avere delle qualità vocali generosamente donate da madre natura, ma non sempre utilizzate al meglio: il registro acuto suona brillante, pur sconfinando in qualche suono più affilato, il registro centrale probabilmente eccessivamente irrobustito, così come quello grave. Quello della Gioconda è un ruolo dove non si può scherzare ed è cosa assai diversa da Aida, il personaggio che il soprano ha interpretato la scorsa estate in Arena. L’impressione è che ci vorrebbe maggiore prudenza nell’affrontare un repertorio così impegnativo in così giovane età e soprattutto in un così ristretto periodo di tempo.

©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Il livello sale decisamente con la componente maschile della compagnia, dove si ammira la crescita continua di Simon Lim, Alvise vocalmente inappuntabile e interpretativamente dotato della giusta autorevolezza. Angelo Villari è uno splendido Enzo Grimaldo, che si riallaccia alla tradizione dei tenori lirici all’italiana di un tempo, voci in grado di solcare gli impeti eroici con generosità di temperamento, per poi vibrare di intenso lirismo dove la parte lo richieda. Spicca però su tutti il Barnaba di Angelo Veccia, completamente assorbito dal suo personaggio, con uno scavo interpretativo irresistibilmente convincente, anche da un punto di vista attoriale (il migliore attore dell’intera compagnia).

Complessivamente un ritorno soddisfacente per un’opera attesa dal pubblico veronese, abituato però ad applaudirla in Arena. Non tireremo fuori la famosa storia del debutto callassiano del 1947, è un falso mito storico (dopo quella Gioconda “la Maria” stette ad aspettare quasi un anno prima che qualcuno si accorgesse di lei davvero), tuttavia la storia d’amore del pubblico con questo titolo (difficile è vero da mettere in scena) meriterebbe una più assidua frequentazione da parte dei teatri.

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