L’edizione 2022 del Festival si compone di tre titoli operistici principali. Al “Regio” di Parma una contrastante produzione di “Simon Boccanegra” è accompagnata da una buona “Forza del Destino”. Debutto invece per il grazioso Teatro “Magnani” di Fidenza con “Il Trovatore”, tra luci e ombre.

Non senza polemiche e turbolenze legate ad alcune scelte artistiche che hanno preoccupato i coristi del “Regio” su una riduzione della loro partecipazione alle produzioni del teatro, il Festival Verdi 2022 si è svolto con la consueta passione e partecipazione da parte del pubblico, anche straniero per una fetta importante che ormai rappresenta una presenza fissa di ogni edizione.

È stata proprio “La Forza del Destino” l’opera inaugurale in cui, alla Prima, vi sono state contestazioni all’indirizzo del direttore Roberto Abbado, considerato colpevole di quanto sopra accennato. Avendo però noi partecipato alla seconda rappresentazione non ci dilungheremo in questo episodio, preferendo piuttosto raccontarvi dello spettacolo. A partire proprio da Roberto Abbado, che quest’opera la diresse solo una volta nel lontano 1992 e che però dimostra di averne studiato nel profondo la drammaturgia e scavato nella partitura alla ricerca di nuovi dettagli. Sin dalle prime tre potenti note della celebre Sinfonia, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna fa emergere con tempi incalzanti e serrati la tensione e l’angoscia del fato che incombe con il suo peso crescente nel dramma. Tuttavia, non sempre la sincronia con i cantanti e con il coro del Comunale, per il resto ben preparato da Gea Garatti Ansini, è precisa.  Lo spettacolo, firmato da Yannis Kokkos nella regia, nelle scene e nei costumi, è di quelli che non si ricordano ma che non disturbano, fa leva sul contrasto tra mondo religioso e militare e fa leva su un approccio evocativo ed astratto, né troppo tradizionale né moderno: pochi elementi sulla scena, utilizzo costante di belle proiezioni (di Sergio Metalli) sui fondali (non senza momenti di suggestione e qualche richiamo artistico), luci molto efficaci (a cura di Giuseppe Di Iorio) e una recitazione che pare lasciata a sé stessa, generica e talvolta per questo particolarmente statica e incoerente. Scarso in tal senso il contributo di Anne Blancard per la drammaturgia mentre un po’ meglio sono risultati i balletti di Marta Bevilacqua. Poco chiara la collocazione storica dei costumi. Sul fronte degli interpreti lo spettacolo è complessivamente riuscito. Liudmyla Monastyrska esibisce tantissima voce di pregevole colore, omogeneità e sfumature, forse non memorabile per fraseggio e dizione ma sicuramente una Leonora di riferimento. Gregory Kunde che pure di recente ha dimostrato di essere ancora capace di prove “da leone” è apparso qui un po’ meno a fuoco del solito nell’emissione, in particolare nel registro grave che appare un po’ sfibrato. Certo, la partitura è beffarda e lo costringe a cantare relativamente poco, sempre a voce fredda nei momenti più complessi. Seppure un po’ di stanchezza è trasparsa, la prova dell’artista ha poi via via ingranato la marcia. Eccezionale come sempre Amartuvshin Enkhbat, voce di incredibile spessore e bellezza di colore, dalla dizione perfetta e a cui manca solo un po’ la capacità di calarsi più in profondo nel personaggio. Perfetti nella loro ormai nota esperienza delle rispettive parti, Marko Mimica, Padre guardiano, e Roberto De Candia, Fra’ Melitone finalmente privo di lezzi della tradizione. Per il ruolo di Preziosilla sarebbe forse servita una vocalità un po’ più corposa, ma con i suoi mezzi Annalisa Stroppa fa tutto e fa molto bene, sacrificata solo da una regia e un costume non memorabili. Buone le prove degli altri interpreti, da Andrea Giovannini, Mastro Trabuco, a Marco Spotti, notevole Marchese di Calatrava, fino a Natalia Gavrilan, Curra, Jacobo Ochoa, un alcade e Andrea Pellegrini, un chirurgo.

©Roberto Ricci

“Simon Boccanegra” invece, brilla indubbiamente sul piano musicale, mentre delude su quello registico. Riccardo Frizza, Maestro concertatore e direttore della Filarmonica Toscanini e dell’Orchestra giovanile della via Emilia, sceglie la versione originaria, precedente alle rilevanti migliorie che apportò anni dopo lo stesso Verdi. Tuttavia, egli riesce a far emergere i lati più belli e singolari, valorizzandone la partitura al punto da renderla degna di confronto con quella che diverrà definitiva. Dalla sua direzione fuoriescono un bel suono, una buona dose di espressiva teatralità e una svariata gamma di sfumature e dinamiche che ben evidenziano, con l’onestà che vi si richiede, luci e ombre di una partitura collocata in un periodo di transizione della produzione verdiana. Eccellente è poi la prova del Coro del Teatro Regio preparato da Martino Faggiani. La regia di Valentina Carrasco è purtroppo la nota dolente dello spettacolo. Negli anni abbiamo imparato a diffidare di chi ha tanto, troppo da dire, negli appunti di regia. Spesso, infatti, grandi ambizioni di innovazione sulla carta si trasformano in fallimenti nella pratica. Il tema delle lotte di potere, di certi contrasti sociali che hanno segnato la storia, i contesti portuali con le loro durezze, vengono sviluppate in modo sensato dai ragionamenti della regista, con collegamenti pertinenti a determinati periodi e movimenti sociali ma a voler ricreare sul palcoscenico un mattatoio con file di decine di vacche appese e sgozzamenti a destra e a manca si sconfina facilmente nel pacchiano e nel cattivo gusto, suscitando le prevedibili contestazioni del pubblico. Numerose sono le scene che appaiono prive di senso. Questa volta va detto, sulle scenografie di Martina Segna un lavoro di regia più raffinato c’è, le luci di Ludovico Gobbi sono funzionali, il video editing, con filmati legati agli anni del dopoguerra italiano, sono di Massimiliano Volpini, i costumi, i soliti visti e rivisti giubbotti in pelle, di Mauro Tinti. Decisamente più felice la parte vocale su cui spicca la maestosa prova di Vladimir Stoyanov, autentico baritono di riferimento per il repertorio verdiano. Del particolare personaggio di Simone, Stoyanov sembra aver compreso a fondo l’animo, trasmettendone contraddizioni, mutamenti, evoluzione psicologica, in modo autentico, naturale, incisivo sia nel canto sfaccettato ed espressivo, quanto nella teatralità. Eccellente e di esperienza anche lo Jacopo Fiesco di Riccardo Zanellato, artista che mette con autorevolezza la sua vocalità importante al servizio del personaggio. Vi è poi Devid Cecconi, un Paolo Albiani ben definito e convincente. Splendida la coppia Gabriele-Maria/Amelia; Piero Pretti è tenore che meriterebbe ben maggiore considerazione per la voce limpida, corposa, calda, svettante in acuto, per il canto generoso e schietto, per il fraseggio musicale, per il porgere appassionato e la versatilità che lo contraddistinguono. Roberta Mantegna ha dalla sua un meraviglioso timbro lucente che si modella con destrezza a tutte le esigenze interpretative del personaggio, cui conferisce piena credibilità. Completano bene il cast Adriano Gramigni, Pietro, e Chiara Guerra, ancella di Amelia.

©Roberto Ricci

“Il Trovatore”, dato in quel piccolo gioiello di teatro quale è il “Girolamo Magnani” di Fidenza, il quale inaugurò proprio con quest’opera nel 1861, è diretto da Sebastiano Rolli, il quale pur nelle ristrettezze di una sala che non consente ampi spazi a nessuno, trae dal formato ridotto della Filarmonica Toscanini le sonorità giuste, imprimendo una direzione che pur senza strafare appare salda, garanzia di tempi adeguati e giuste dinamiche e sfrutta bene un’acustica che può facilmente dar luogo ad eccessivi volumi. A garanzia di un buon equilibrio tra buca e palcoscenico vi sono anche le voci. In primis quella di Simon Mechlinski, giovane baritono che convince pienamente nei panni del Conte di Luna, esibendo una encomiabile personalità e spiccate doti interpretative da artista di una certa maturità, a dispetto dell’età. Voce di belle tinte, omogenea e generosa, dizione chiara. Altro personaggio, altra (per noi) rivelazione: Marigona Qerkezi, chiamata a sostituire Silvia Dalla Benetta. La vocalità è di impatto, morbida ma al tempo stesso vigorosa, sicura, corposa e ben emessa dal registro grave a quello acuto, insomma, un velluto pieno e ricco, di quelli che si ascoltano con grande soddisfazione. Anche il personaggio risulta ben scolpito nel suo complesso, confermando che si tratta di un soprano di cui presumibilmente continueremo a seguire l’ascesa. Meno convincente Angelo Villari, anche lui non certo privo di volume e di una voce che svetta con facilità e bel suono. Ciò che manca sono però le sfumature, l’eleganza, dinamismo. Il canto risulta monotono e sempre stentoreo, non sempre aggraziato nelle intenzioni. Ciò ne compromette talvolta l’intonazione ed elimina del tutto il lato più lirico e il carattere più sfaccettato del trovatore che non è certo solo l’eroico e virile condottiero della Pira, eseguita a onor del vero bene, meglio di buona parte del resto dell’opera. Un po’ in difficoltà nella parte di Azucena ci è parsa Rossana Rinaldi, dotata di vocalità forse più incisiva in altri repertori e non pienamente convincente anche sul lato interpretativo. Completano il cast, con fortune alterne, Alessandro Della Morte, Ferrando, Alida Ilaria Quilico, Ines, Davide Tuscano, Ruiz, Chuanqui Xu, vecchio zingaro. Impeccabile la prova del Coro del Regio, preparato da Martino Faggiani. Sullo spettacolo di Elisabetta Courir in sé, vi è ben poco da dire, se non che domina con monotonia il buio dall’inizio alla fine, non ci è chiara la logica che tiene insieme lo spettacolo, i costumi di Marta Del Fabbro ci paiono sgradevoli, la regia poco sviluppata se non attraverso la presenza di controfigure che di tanto in tanto compaiono sulle scenografie di Marco Rossi, composte da alcune scalinate e poco altro. Le luci, funzionali, sono di Gianni Pollini, le coreografie, talvolta le uniche a dare un senso al tutto, di Michele Merola.

Grigorij Filippo Calcagno

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