I teatri italiani hanno fatto a gara in questi primi mesi dell’anno per celebrare il centenario di Franco Zeffirelli, il regista italiano probabilmente più iconico nella storia del melodramma tra Novecento e Duemila. Sono ritornati ad affacciarsi alle scene spettacoli già entrati realmente nell’immaginario collettivo, come La Bohème in queste prossime settimane in scena alla Scala o Pagliacci all’Opera di Roma. Fondazione Arena di Verona, l’istituzione a cui Franco Zeffirelli ha legato il suo nome negli ultimi anni di attività, ha deciso di riproporre Aida nel fortunato allestimento tenuto a battesimo dal maestro nel piccolo Teatro Verdi di Busseto. Si tratta di una versione in miniatura del capolavoro verdiano, tanto preziosa e tanto discussa già allora per i tagli inflitti qui e là alla partitura. La scelta non è parsa così azzeccata, innanzitutto perché in un teatro come quello veronese, ad un passo dall’Arena dove Aida ritorna ad ogni sospirata estate, si spererebbe di udire altri titoli, e soprattutto con ben altri risultati artistici. Si sarebbe dovuto puntare, a nostro umile parere, alla ripresa di qualche spettacolo meno “abusato” (ci si passi il termine), magari andando a ripescare nell’archeologia zeffirelliana, creando un’operazione storico-musicale che fosse all’altezza dell’anniversario e che non si svilisse a mero tributo museale non indenne dalla polvere.
Il risultato è un’Aida priva di reale interesse. Se andiamo oltre alla sempre affascinante bellezza pittorico-scultorea dell’apparato scenico di Zeffirelli, non vi è praticamente nulla, se non una recitazione melodrammatica stereotipata (piuttosto esasperata nel caso della protagonista) e un gusto non esattamente esaltante nei pur limitati movimenti coreografici (a cura di Luc Bouy). Discutibili ancora una volta i tagli alla partitura verdiana (forse giustificabili a Busseto), ma che qui appaiono del tutto insensati (a partire da quello del duettino tra Radames e Amneris che precede il terzetto con Aida del I atto).
La direzione di Massimiliano Stefanelli amplifica ancor di più la debolezza di tali sforbiciamenti con scelte dinamiche e agogiche incoerenti. Orchestra e coro si abbandonano ad una routine, neanche troppo dorata, ben lungi dai loro abituali standard.
Francesca Maionchi e Riccardo Rados danno correttamente voce alla Sacerdotessa e al Messaggero, mentre il ruolo del Re si poggia sulla sicurezza di Romano Dal Zovo. Antonio Di Matteo veste autorevolmente i panni di Ramfis.
Youngjun Park ha voce baritonale di bel colore, ma vocalità sostanzialmente lirica non adatta alla protervia e alla pur selvaggia nobiltà di Amonasro, che quindi ci porta a consigliare prudenza nell’amministrare un patrimonio vocale comunque di buone qualità.
Stefano La Colla è stato Radames anche in Arena e possiede caratteristiche azzeccate per il personaggio, non appare tuttavia in perfetta forma (subentrato al previsto Ivan Magrì e poi a sua volta rinunciatario per indisposizione alla seconda recita) e dunque il cantante e l’interprete gioca evidentemente in difesa.
Monica Conesa aveva mostrato delle frecce interessanti al suo debutto areniano della scorsa estate con Aida, ma né in Gioconda che in questa edizione dell’opera verdiana, ha dimostrato di aver raggiunto la completezza tecnica ed artistica per affrontare ruoli così impegnativi e in contesti così importanti.
L’unica ad esibire quanto meno il giusto temperamento è l’Amneris di Ketevan Kemoklidze, la cui rigogliosa vocalità mezzosopranile e una certa verace espressività vengono soffocate dalle intenzioni della buca intenta a scagliare tuoni e lampi nella scena del giudizio, sopraffacendo del tutto il palcoscenico.
Aida e Radames chiudono gli occhi sotto il cielo che si schiude e anche noi li chiudiamo, ripensando a certe Aida del passato sotto il cielo stellato, con la speranza in quelle che verranno.