Una Lucia di Lammermoor decisamente riuscita sotto l’aspetto musicale ma non troppo sotto quello registico entusiasma il pubblico del Teatro Comunale di Bologna, giunto in sala per la terza recita del titolo in programma.

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©Rocco Casaluci

Ispirata dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott, la Lucia di Cammarano e Donizetti è il simbolo di un’impetuosa ventata romantica che sta conquistando in quegli anni l’Italia dopo essersi diffusa in Europa centrale. Se da un lato già Rossini con Donna del Lago si era ricondotto al grande autore inglese (ma senza arretrare sui propri principi musicali) ed altri compositori minori ne avevano tratto trame per proprie produzioni stravolgendone però i soggetti, il capolavoro presentato a Napoli nel settembre 1835 rappresenta senza dubbio il primo manufatto profondamente innovativo e distaccato dai canoni classici, intriso di passioni, sogni e tormenti immersi in luoghi e atmosfere che rispecchiano appieno le caratteristiche psicologiche dei personaggi.
Il libretto a lungo e ingiustamente bistrattato di Salvatore Cammarano evidenzia forse ancor più che il romanzo il carattere drammatico, cupo, tragico della storia delineando in modo più marcato l’animo dei protagonisti ed eliminando il più possibile ogni contorno descrittivo che possa indebolire l’intensità puramente romantica delle vicende narrate.

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©Rocco Casaluci

Dal canto suo la musica di Gaetano Donizetti non è da meno, attenta in ogni minimo dettaglio metrico e melodico ad esaltare in maniera straordinariamente innovativa atmosfere, sfumature, colori, suggestioni. Insomma: nessuna concessione a schemi convenzionali, ornamenti, orpelli descrittivi, il tutto si concentra nello sprofondamento progressivo e serrato verso quel destino pesante, tormentato e crudele la cui unica speranza di uscita è riposta in cielo.
Da sempre considerata un capolavoro assoluto dell’Opera italiana, Lucia di Lammermoor è tornata negli ultimi tempi ad essere rappresentata con notevole frequenza nelle stagioni dei teatri italiani e non solo. Questa fortuna è dovuta, al netto della bellezza musicale e della potenza teatrale, ad una buona offerta sulla scena di voci adatte a tale repertorio, tutt’altro che semplice o privo di insidie.

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©Rocco Casaluci

Venendo alla nuova produzione bolognese un primo encomio va al M° Michele Mariotti che anche se solito frequentare sovente questo repertorio non aveva ancora avuto occasione di dirigere il titolo in questione. La scelta di non eseguire pressoché nessuno dei tagli che troppo spesso aggrediscono la splendida partitura donizettiana è stata lodevole ancorché rara. Essa infatti ha restituito dignità, coerenza, bellezza senza pregiudicare in alcun modo equilibrio e fluidità come taluni di tanto in tanto sostengono.
Si è poi soliti dire che chi ben comincia è a metà dell’opera e anche in quest’occasione lo si può ribadire. Mariotti ha diretto con tempi adeguati, una buona attenzione alle dinamiche e ai colori, alternando nella giusta maniera slanci di notevole vigore a momenti più lirici e delicati. Fatta eccezione per qualche lieve imprecisione anche la prova dell’Orchestra è sicuramente positiva, in particolar modo per la sezione degli archi e per quella dei fiati (perfetto il flauto nella scena della “pazzia”).
Il cast vocale si è dimostrato pero’ la vera parte vincente dello spettacolo.

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©Rocco Casaluci

Nel ruolo della protagonista la bella e brava Irina Lungu, soprano ormai nota al pubblico internazionale, ha dispiegato la sua suggestiva voce con buona padronanza nelle temibili agilità che costellano l’opera, acuti slanciati e sicuri e un fraseggio d’effetto, strappando entusiasti applausi al termine di ogni celebre (e difficile!) pagina musicale.
Stefan Pop, nel ruolo di Edgardo, è per chi vi scrive un’autentica rivelazione. Il tenore rumeno possiede mezzi che gli consentono di conquistare la sala con una voce di notevolissima potenza, volume ed acuti svettanti, senza però scadere in un canto poco elegante, piatto e gridato. Egli ha anzi interpretato il proprio ruolo con attenzione a dinamiche e sfumature e una solidità tecnica (anche l’appoggio è quanto mai sicuro) che gli hanno consentito di non risparmiarsi mai.
Markus Werba, Enrico Ashton, è un baritono dal timbro chiaro ma che è riuscito a convincere forte di una voce pulita, sonora e di un’ottima padronanza della parte. Lodevole il suo “Cruda, funesta smania”.

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©Rocco Casaluci

Assolutamente valida anche la prova del basso russo Evgeny Stavinsky, un Raimondo dalla voce piena e rotonda e un fraseggio elegante che non ha trovato grosse difficoltà a disimpegnarsi nel suo ruolo.
Se Alessandro Luciano (Lord Arturo) non gode di mezzi particolarmente piacevoli all’udito e la sua prova è risultata un po’ “dura” nella linea di canto e nel fraseggio, la sua interpretazione è stata comunque nel complesso valida.
Adeguato il resto del cast rappresentato dalla bella voce di Elena Traversi (Alisa) e dal Gianluca Floris (Normanno).
Il Coro del Teatro si è distinto con sicurezza, preparato da Andrea Faidutti.
Veniamo infine alla nota meno positiva, per non dire espressamente negativa, dello spettacolo: la regia di Lorenzo Mariani. Se da un lato i propositi dichiarati non parevano particolarmente bizzarri è stata la resa effettiva a lasciare molti dubbi e perplessità. Perché molto semplicemente una regia questa Lucia non ha mostrato di averla quasi mai se non per alcune trovate decisamente discutibili.

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©Rocco Casaluci

La recitazione è stata pressoché interamente lasciata al caso se non all’inventiva degli interpreti che pur con tutta la buona volontà non hanno saputo andare oltre le solite movenze “di prassi”, banali e stereotipate, arrivando a rendere piatte scene che avrebbero potuto sprigionare ben altro potenziale e poco scavate le personalità di personaggi la cui complessità è invece un tratto distintivo da indagare (si pensi ad Enrico). Tra pressapochismo ed errori grossolani si è sviluppata tutta la rappresentazione: il coro quasi sempre immobile in riga a mo’ di battaglione, il sestetto anch’esso in fila per l’appello dopo aver fatto cantare gli “a parte” di Enrico ed Edgardo uno a pochi centimetri dall’altro, un incomprensibile tentativo di stupro da parte di Enrico su sua sorella Lucia (perché mai la pressione psicologica dovrebbe tramutarsi in qualcos’altro?) interrotto dalla pistola puntata da Raimondo come nei migliori film western. Sono solo alcuni piccoli esempi di un allestimento che ha però dato il peggio di sé nel finale, una pagina scritta per rappresentare il culmine della catastrofe (si conclude con l’unica morte che avviene in scena), l’apice della trama, il momento in cui finalmente l’apparente orgogliosa e baldanzosa personalità di Edgardo viene analizzata nella sua interiorità, dal pessimistico addio alla vita fino al superamento delle proprie sofferenze quando scoprirà che Lucia l’ha sempre amato e allora il compimento di quell’amore impossibile potrà finalmente avvenire in scena.

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©Rocco Casaluci

Tutta la carica emotiva della scena è stata invece purtroppo frantumata dall’imbarazzante apparizione di un manichino di Lucia appeso ad un filo metallico. Perché mai la povera Lucia dovrebbe restare lì a dondolare sulla testa di Edgardo? E’ un’idea priva di ogni logica, di cui non si capiscono le ragioni e che ha distolto l’attenzione dal dramma del giovane innamorato nel momento più inopportuno e nel modo più kitsch e fastidioso possibile. Per quanto concerne le scenografie ci limiteremo a considerarle adeguate all’impianto registico scelto così come i costumi, quasi sempre gli stessi nel corso di tutta l’Opera per buona parte del cast.

 

Al termine dello spettacolo forti applausi per tutti con particolare entusiasmo per il Direttore e i due protagonisti.

 

Bologna, 18 giugno 2017

Grigorij Filippo Calcagno

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