Il Teatro Regio di Parma è il tempio della musica verdiana e il Festival che ogni anno vi si tiene è il centro della vita musicale della città, ma anche del mondo operistico internazionale, che va a rendere omaggio al grande Giuseppe, assistendo alla messinscena dei suoi capolavori. Quest’anno aprire la manifestazione è toccato a “Jérusalem”, con un grande protagonista, Ramón Vargas. Ed è proprio il tenore messicano che abbiamo avuto il grande onore di intervistare. Un artista che ha fatto dell’intelligenza una sua caratteristica fondamentale, conducendo una carriera sempre ai più alti livelli, sfoggiando una tecnica forbita e una cultura che non spesso si trova. Un cantante che è riuscito a diventare Artista, con la “A” maiuscola, diventando assoluto protagonista della storia odierna del melodramma.
Come è nato il tuo amore per l’opera?
L’amore per l’opera è arrivato nella mia vita un po’ più tardi. Quello che mi piaceva fin da bambino era cantare e cantavo nel coro dei bambini della Basilica di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico. Era un coro di veri professionisti e il nostro insegnante, molto severo, aveva studiato a Santa Cecilia e aveva come idea quella di migliorare il nostro coro e rinnovare il repertorio da affrontare. Cantavamo molto gregoriano con lui ed è un repertorio che mi piace molto ancora oggi, e poi tantissima polifonia. Questo mi ha dato una sensibilità speciale verso la musica in generale e il canto. L’opera è stata una scoperta più tardiva, quando avevo tra i diciassette e i diciotto anni e la mia voce era già di tenore. Ho scoperto che le cose più interessanti da cantare per la mia vocalità erano nell’opera.
Come descriveresti la tua voce a chi non l’ha mai sentita?
Io sento che ognuno deve rispettare le proprie caratteristiche vocali. Il paragone che mi viene in mente è con il mondo delle automobili: c’è qualcuno che ha una Ferrari, come Corelli o Del Monaco, voci potenti, poi ci sono altre voci che sono delle limousine: hanno altre caratteristiche. La mia voce è come una Bentley, una macchina comoda, potente, ma non una macchina da corsa. E’ una voce portata per le grandi frasi, per il belcanto, anche per le cose più spinte, ma sempre avvolte in un certo lirismo.
Osservando la tua carriera e il tuo repertorio c’è un estremo equilibrio nelle scelte…
Penso che la cosa più importante per un artista, che è un “atleta” della voce, è saper riconoscere i propri limiti. Una volta capito questo si procede con più tranquillità e serenità in questa carriera, che è molto difficile, piena di trappole, di cui non ci rendiamo conto, soprattutto quando si è giovani…

La tua galleria di ruoli però comprende molti repertori diversi: come si ottiene l’armonia tra tutti questi stili?
Penso che sia una questione di studio e di tecnica. Se tu sei in grado di capire, come nell’architettura o nell’arte pittorica, le diverse sensibilità di diverse epoche, puoi andare oltre. Nel secolo scorso, verso gli anni ’30-’40 , i cantanti interpretavano tutto il repertorio in maniera “verista”. Oggi sta succedendo lo stesso, perché sicuramente l’emozionalità dell’espressione del canto verista e il suo essere “diretto” al pubblico, rende le cose più facili. Per esempio Edgardo di “Lucia di Lammermoor” è un eroe protoromantico e per questo deve essere diverso da Rodolfo de “La Bohéme”. Oggi, soprattutto i giovani cantanti, interpretano le due cose allo stesso modo, perché è più facile far arrivare al pubblico l’emozione. C’è un’assoluta confusione di stili. Se noi però guardiamo un quadro romantico, vediamo che le emozioni sono suggerite ed idealizzate. Succede la stessa cosa nel Belcanto. E’ lo stesso pericolo che si corre con “Werther”, dove c’è il rischio di renderlo verista. Questa è responsabilità dei direttori d’orchestra, dei registi, del pubblico e di noi cantanti che accettiamo tutto questo. Il pubblico vuole l’emozione, i direttori d’orchestra molte volte non conoscono le partiture che dirigono e i registi “violentano” talvolta l’opera, rendendola irriconoscibile e lontana dallo stile. Ammiro molto le persone che mantengono per tutta la vita una coerenza con il proprio stile, per esempio il compianto Nikolaus Harnoncourt, che è riuscito a realizzare alla perfezione la pulizia e la precisione del repertorio mozartiano che tanto amava. E’ come andare in un museo e vedere la perfetta conservazione dello stile. Non ha senso un quadro classico con una cornice modernissima, con le lampadine…

In queste settimane sei impegnato al Teatro Regio di Parma nel ruolo di Gaston in “Jérusalem”. Parliamo un po’ di questo ruolo e di questo titolo di rara esecuzione..
La mia opinione personale è che “Jérusalem” è molto più bella de “I Lombardi alla prima crociata”, di cui è il rifacimento. C’era stata molta polemica all’epoca, perché i francesi non avevano gradito il fatto che Verdi aveva proposto come titolo un rifacimento di un opera precedente, quindi non una novità. E’ un po’ la stessa cosa che successe con Leopoldo II la prima volta che ascoltò “La Clemenza di Tito”, rimase deluso, perché si aspettava per la sua incoronazione qualcosa di speciale composto per l’occasione, senza sapere che Mozart aveva scritto l’opera in pochissimo tempo. Tra i francesi e Verdi successe una cosa piuttosto similare. Eppure Verdi ha fatto un lavoro straordinario, e ha migliorato il tessuto musicale. La parte del tenore in “Jérusalem” è più ampia e accresciuta. I tre protagonisti hanno tre parti bellissime. Possiamo discutere sui ballabili che Verdi è stato costretto ad inserire e la cui qualità musicale forse non è all’altezza del resto. Però lui ha dovuto compiacere il gusto del pubblico parigino, che in ogni “Grand-Opéra” che si rispetti aspettava il balletto.

Rispetto alla questione della voce verdiana come ti poni? Esiste o è semplicemente un falso mito?
Il problema per rispondere a questa domanda è di quale Verdi dobbiamo parlare per trovare la voce verdiana. Verdi è stato un compositore molto prolifico, e le prime opere di Verdi e le ultime non hanno nulla a che fare tra di loro. Gaston è stato scritto per Gilberto Duprez, il famoso tenore, ed è stato scritto con tutti i crismi del belcanto, come l’estensione in acuto. Cosa c’entra Gaston con Otello per esempio? Sembrano scritti da due persone diverse. Quando parliamo di Verdi, parliamo più che altro di un modo di pensare e di interpretare, che c’entra molto meno con il lato vocale. Penso che sia l’accento verdiano che fa la differenza, il porgere la parole e l’andare verso il testo: una cosa a cui lo stesso Verdi suggeriva di porre attenzione. Verdi non ha creato dei ruoli, ha creato delle persone. La maggior parte dei ruoli verdiani hanno una loro vita e una loro personalità, cosa che non succede con Puccini per esempio. “La Bohéme” non ha delle personalità: sappiamo che Rodolfo è stato un codardo, ha lasciato morire Mimì, che sarebbe morta sulla strada se Musetta non l’avesse cercata. Non si capisce la vera identità di ogni personaggio. Invece Verdi crea un’identità per ogni personaggio e questo lo rende anche più difficile. Anche il Duca di Mantova, che è un cretino, ha un’anima. Lo sentiamo in “Ella mi fu rapita…parmi veder le lagrime”. Si sente la sua tristezza, si capisce che è un uomo viziato che non riesce ad amare ed essere amato realmente. Sono personaggi che pensano e che hanno una propria vita.
Cantare Verdi al Teatro Regio di Parma: qual è la pressione e l’emozione di cantare in questo tempio della musica?
Io avevo cantato a Parma circa dieci anni fa in un Gala con un’ampia selezione di “Rigoletto”. Fu un’esperienza molto bella, ma breve. Questo è stato il mio vero debutto al Teatro Regio. Mi sono sentito molto bene. E’ un teatro in cui quando si entra in scena si sente il peso della tradizione. Provi le stesse sensazioni dell’entrare alla Scala. E’ forse il teatro di tradizione più importante in Italia, Scala a parte. E’ un punto di riferimento, con una posizione importante. Cantarci Verdi e inaugurare il Festival Verdi è un’emozione unica!
Presto tornerai al repertorio mozartiano con Tito ne “La Clemenza di Tito” e Don Ottavio in “Don Giovanni”…
Parlando del repertorio io utilizzo un immagine: penso al repertorio belcantistico come ad una stanza, con una porta che conduce al salone seguente. Tu passi dalla prima stanza alla seconda. Io cantavo Rossini e tutto il repertorio belcantistico, quando ho cambiato ho lasciato però sempre la porta aperta, con la possibilità di passare da un salone all’altro. Successivamente mi sono accorto che il repertorio rossiniano acuto non mi era più così comodo e tranquillamente ho chiuso quella porta. Ci sono cantanti che possono vivere sempre in un “salone”: per esempio una voce di lirico-spinto che non potrà cambiare molto nel tempo. Invece ci sono voci, come la mia, che cambiano naturalmente. Non c’è una regola in questo. L’attenzione che si deve fare è che quando si passa al “salone” successivo non bisogna chiudersi la porta alle spalle, perché quella porta non si aprirà più. Quindi io ho lasciato la porta aperta a questi ruoli mozartiani, che mantengono la mia voce flessibile e anche il mio modo di pensare. Tornando alla questione stilistica mi sono utili ad allontanarmi dall’esagerazione dell’espressione, riportandomi ad un modo più discreto di esprimere le emozioni, e per questo non più facile. Non puoi accentare troppo, perché rovini e sporchi la linea. Amo questa musica e questi personaggi: Tito, Idomeneo e anche Don Ottavio. Quest’ultimo è molto interessante: non è un ragazzino, è un amico del commendatore, quindi un uomo maturo, promesso sposo di Donna Anna, la quale è obbediente nei confronti del padre, ma è interessata più a Don Giovanni che ad Ottavio. Lui però è la rappresentazione della correttezza e della saggezza. Per questo non può essere fatto da un giovane ragazzo, perché il personaggio risulta debole e smunto. Non è così! E’ un uomo maturo che prima di agire riflette. Anche quando Donna Anna riconosce in Don Giovanni l’assassino del padre, lui non corre a vendicarla. Subito trova questa accusa ridicola e dopo aver capito che è la verità ci mette del tempo a reagire. E’ come nella vita: quando siamo giovani facciamo le cose con più superficialità e invece con l’età che avanza (non vale per tutti) diventiamo più saggi.
Quali sono i consiglio che daresti ad un giovane che si approccia al canto come studente, o all’opera come ascoltatore?
Parliamo prima innanzitutto di coloro che iniziano a studiare canto. Io penso che se un giovane cantante vuole entrare in questo mondo per diventare ricco e famoso, sta sbagliando tutto. Questa non è una professione che ti permette di sapere in anticipo come andrà e cosa ne sarà della tua voce e del tuo talento. Giacomo Lauri Volpi diceva che servivano quattro, cinque cose per fare un cantante: la prima e l’ultima sono la voce. Alfa e Omega. In mezzo c’è il resto. Cominciamo a cantare perché ci piace, perché abbiamo una voce e delle caratteristiche vocali. In Spagna dicono che per fare il torero bisogna somigliare ad un torero: se sei troppo grosso o troppo basso non lo puoi fare. Per fare il cantante serve la voce. Ma non basta. Ci sono persone che cantano, ma non hanno un senso teatrale o il senso musicale. Voci eccezionali ma che mancano del resto. Questo è un mondo competitivo, dove è pieno di gente talentuosa. Ad un giovane cantante devo dire che questo mestiere si fa innanzitutto per passione, perché diventa la “tua” vita. Cantare ti dà delle soddisfazioni che sono diverse da tutte le altre che puoi ottenere nella vita. Devi provare con tutte le tue forze se vuoi fare il cantante, sapendo che ci sono delle delusioni. L’altra cosa importante è formare una tecnica vocale “giusta”, sapendo utilizzare il proprio strumento, per metterlo al servizio della musica, delle emozioni che vuoi dare e questo ti permette di lavorare, anche nel momento delle prove di regia e durante lo spettacolo, senza pensare alla voce. Nel mondo attuale della lirica, che è molto cambiato dal passato, la gente ascolta con gli occhi. Una volta “vedevamo” dalle orecchie, oggi non è più così. Bisogna trovare un equilibrio: il mondo moderno di oggi, contaminato dal cinema e dalla televisione, ci porta a fare dell’opera qualcosa di simile. Dobbiamo però sapere che l’opera non è stata pensata per degli interpreti giovani e cinematografici. Prendiamo Butterfly, una bambina giapponese di quindici anni: dove la si trova un’interprete che abbia la stessa età prevista? E’ impossibile. Quindi bisogna valutare tutto con coscienza. Per quanto riguarda il pubblico, penso che l’importante è che quando si assiste ad uno spettacolo ci si emozioni. Penso che il pubblico si debba fare una propria opinione personale di uno spettacolo, senza essere influenzati da ciò che viene detto o scritto. Soprattutto in questo periodo attraverso la pubblicità (che è sempre esistita), si può creare molta confusione nel gusto delle persone, promuovendo fenomeni commerciali, che non hanno nessuna caratteristica fuori dal comune o nessuna speciale qualità. Spesso ho incontrato persone che non andavano all’opera perché pensavano di non essere in grado di capirla, o di non avere la cultura necessaria per ascoltarla. E’ un’arte soggettiva, in cui ognuno sente e percepisce cose diverse. Il problema è quali sono i parametri per misurare la qualità di un cantante e questa è una domanda difficile a cui rispondere, per quelli che non sanno. Non dovrebbe esserlo per chi ne sa. Un buon cantante è colui che riesce a cantare tutte le note di un ruolo e riesce ad eseguire le dinamiche dove sono scritte. Succede però che un cantante per esempio come Alfredo Kraus o Carlo Bergonzi che eseguivano alla perfezione tutto quello che era scritto nel testo musicale. C’è qualcuno pero sostiene per esempio che la voce di Kraus non è bella. Non si può dire che non è vero, perché è soggettivo. Il problema della nostra professione è che è l’unica in cui si confonde lo strumento con lo strumentista. E’ come avere uno Steinway a casa e considerarsi per questo un grande pianista. Allo stesso modo c’è chi ha una voce meravigliosa, ma non per questo è un bravo cantante. Sicuramente un pianista mediocre che suona uno Steinway farà venire fuori dei suoni meravigliosi dallo strumento, e chi ascolta (anche i critici) si possono confondere tra il suono e la reale bravura dello strumentista. E’ questo che bisogna discernere, la qualità dello strumento, dalla capacità di farlo suonare questo strumento. Se si frequenta il teatro, piano, piano, anche senza essere esperti si può arrivare a capire questa distinzione, capire che uno stesso ruolo può essere cantato in maniera diversa. A volte siamo un po’ pigri, ma dobbiamo vincere questa pigrizia e impegnarsi un po’ per entrare nell’arte in generale. La nostra società edonistica, che ci porta alla pigrizia, ci spinge a restare in una posizione passiva rispetto alle forme d’arte. Questo è un pericolo, perché si cade ai limiti: molti teatri oggi pensano prima di tutto a trasmettere le proprie produzioni al cinema, e per fare questo cercano dei protagonisti che abbiano il fisico adatto allo schermo, come se fossimo attori di Hollywood. Il pericolo è che questo va a discapito della qualità, perché è fatto soltanto per l’occhio. E capita di andare a teatro a sentire quelle voci e di rimanere delusi. Si svuotano i teatri e si riempiono i cinema.
C’è un ruolo che ancora non hai affrontato, ma che è nei tuoi sogni?
Io non sono un grande amante di Puccini, anche se ho cantato molte volte “La Bohème”, che considero un’opera perfetta e che mi piace tantissimo. Puccini ha voluto con semplicità la storia d’amore di due ragazzi, che finisce in tragedia. E’ un’opera meravigliosa. Non mi sento molto attratto da “Madama Butterfly” e “Turandot”. Non mi piace molto “La Fanciulla del West”. Non ho mai cantato Mario Cavaradossi in “Tosca”, e quello mi piacerebbe affrontarlo. E’ un ruolo che per una ragione o un’altra non sono ancora riuscito a cantare.
Nel repertorio francese mancherebbe all’appello Nadir de “Les pêcheurs de perles”…
Questo è un ruolo che non ho affrontato nel passato e non penso lo farò mai. Non credo che ora vada più bene per la mia vocalità, penso all’aria “Je crois entendre encore” o al duetto con il soprano. E’ una parte molto acuta. Avrei dovuto debuttarlo anni fa, e poi non sono mai riuscito ad affrontarlo. Poi ci sono ruoli che non si devono debuttare troppo presto e ruoli che non si devono debuttare molto tardi, e Nadir è uno di questi. E’ giusto farli nel momento giusto della tua vita, dopo è meglio lasciar stare. Dicevamo all’inizio che è importante capire i propri limiti e forse fare il ruolo di un ragazzino come Nadir non è più il tempo. Allo stesso modo di Romèo, che sono stato contentissimo di aver fatto, ma che non farò mai più. Anche perché ci sono tantissimi altri ruoli da cantare bellissimi, penso ad altri titoli del Primo Verdi: ruoli bellissimi, difficili, in cui serve un cantante che sia esperto, che conosca i segreti del belcanto e del linguaggio verdiano. E oggi non ce ne sono molti, perché ci sono o voci troppo pesanti, o troppo leggere. Nei prossimi mesi affronterò Carlo ne “I Masnadieri” all’Opéra di Montecarlo, oltre che “La Clemenza di Tito” all’Opéra National de Paris e Don Ottavio in “Don Giovanni” al Grand-Théâtre de Genève.
Grazie a Ramón Vargas e In bocca al lupo!
Francesco Lodola