
È questa la domanda che più echeggiava nel foyer del Costanzi il 17 dicembre 2017, dopo la terza recita de La Damnation de Faust di Hector Berlioz con la regia di Damiano Michieletto. Uno spettacolo memorabile sotto molti aspetti, infatti sia che si consideri l’operato del regista geniale e in grado di avvicinare il nuovo pubblico all’opera, sia che lo si consideri dissacrante, fuori luogo e non rispettoso della tradizione, questa produzione si ricorderà a lungo, se non altro per il clamore che ha suscitato. In entrambi gli schieramenti si possono trovare dei punti di sintesi e di accordo: innanzi tutto la grandezza Berlioz, magnificamente eseguito dal maestro Daniele Gatti, e una palpabile attenzione/tensione che percorreva tutto il teatro durante l’esecuzione. La regia di Michieletto, con le scene di Paolo Fantin e i costumi di Carla Teti, è stata oggetto, durante la terza recita, di una sentita contestazione da una parte del pubblico romano poco dopo l’inizio dell’opera. L’opera di Berlioz è infatti nata come composizione sinfonica (“légende dramatique”) ed è priva di dettagli contrariamente ai vari libretti d’opera.

L’idea di Michieletto è quella di far vedere al pubblico l’opera attraverso gli occhi di Méphistophélès, per questo, durante l’esecuzione, era presente sul palco un operatore con una steadycam che proiettava su uno schermo posto sul palco dettagli della scena altrimenti inaccessibili agli occhi degli spettatori. Il regista ha inoltre suddiviso l’opera in episodi. La scena che ha creato discordia tra il pubblico è stata quella intitolata “La Paura”, in cui Faust, un adolescente in jeans e felpa veniva fatto oggetto di bullismo da dei compagni di classe. Fra molte scene di poco gusto dal nostro punto di vista, ve ne erano alcune che, al contrario, spiccavano per originalità come quella in cui Faust e Marguerite si trovano in una specie di giardino dell’Eden e la grande scena finale in cui tutto il palco sembrava invaso da una densa pece nera.
Passando al cast, il non facile ruolo del protagonista è stato affidato a Pavel Černoch, il quale è stato ottimo interprete e attore, possedendo un buon timbro ed un buon settore centrale ma più problematico il settore acuto che se nei piano era molto piacevole, nei forte sembrava un po’ troppo scarno. Particolare è stata anche l’aria di Brander, interpretato da Goran Jurić, “Certain rate, dans une cuisine” con annesso ratto gigante sulla scena.

La Marguerite di Veronica Simeoni è stata ottima sul porlo musicale, avendo un grande volume e un timbro unito e anche come attrice, grazie ad un maggiore protagonismo dettato dalla regia. Ma il vero trionfo è stato per Alex Esposito, alias Méphistophélès. Magnetico, eclettico e seduttore, senza mai scadere nel cattivo gusto e soprattutto mai a scapito della vocalità, anch’essa splendida grazie al timbro vigoroso e riconoscibile e ad una potenza di volume non indifferente. Sebbene messo in secondo piano il vero protagonista della serata è stato, magicamente preparato dal maestro Roberto Gabbiani, il coro che, nonostante la scomoda posizione che non gli permetteva di interagire con gli altri personaggi, ha dato un forte carattere durante tutto il corso dell’opera. A dare colori e sfumature alle sinfonie vi era la bacchetta del maestro Daniele Gatti, che aveva inaugurato anche la scorsa stagione del Teatro Costanzi. Come già detto, questa produzione sarà per molto tempo ricordata dal pubblico romano per l’estrosità di Damiano Michieletto, abile anche nel far confondere lo spettatore.
Sara Feliciello e Paolo Mascari
Roma, 17 dicembre 2017