Un nuovo allestimento di Rigoletto con la regia di Fabio Sparvoli e la direzione di David Crescenzi va in scena al Comunale di Modena, come terzo titolo della Stagione 2019-2020. Protagonista è Devid Cecconi, chiamato a sostituire l’indisposto Marco Caria.
Superato un avvio di stagione positivo che ha visto andare in scena due tra i più celebri titoli pucciniani quali La Bohème e Tosca, è la volta di una delle Opere più conosciute e amate, appartenente alla cosiddetta “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi, Rigoletto. L’opera, qui presentata in un nuovo allestimento con la regia di Fabio Sparvoli, si distingue come una delle vette assolute raggiunte da Verdi nella caratterizzazione dei personaggi e nel rapporto tra essi e la musica, le cui forme stravolgono i canoni usuali e si piegano in funzione del teatro con compattezza sfociando in una perfezione drammatica con pochi paragoni.
Dei tanti temi, dei tratti psicologici e dei rapporti che intercorrono tra le figure, che Verdi affronta con tanta genialità in questo dramma, sembra emergere poco nel lavoro di Sparvoli. Lo spettacolo si basa sul presupposto che l’opera debba essere vista come per la prima volta, istintivamente e senza alcun “ricordo” già sedimentato in mente; il regista spiega inoltre che i personaggi subiscono continui cambiamenti e travestimenti e Rigoletto, con i suoi segreti non svelati e i suoi mutamenti di carattere ha in realtà un’identità inafferrabile e insita nel proprio travestimento. Ragionamenti teorici a parte, condivisibili o meno che siano, la resa effettiva non ci pare raggiungere alcun obiettivo descritto. Lo spettacolo è parso mancare di un’anima, di sostanza; e questo non perché astratto in sé (vi sono casi celebri di spettacoli in cui senza un elemento in scena il Teatro sprigiona ancor più potenza) ma perché privo di un senso, di un filo logico. I movimenti e la recitazione accusano una certa staticità e casualità quando non scadono in momenti poco riusciti come quando Gilda bussa ad una porta che non c’è battendo colpi per aria. I costumi, di Alessio Rosati, vanno dal rinascimentale al contemporaneo con commistioni di ogni tipo di non chiara coerenza mentre le scene (Giorgio Ricchelli) sono spoglie, fatta eccezione per una grande gabbia metallica che rappresenta la chiusura in cui vive Gilda e poco altro. Gabbia il cui montaggio avviene dietro il sipario durante il fondamentale monologo di Rigoletto “Quel vecchio maledivami” con fastidiosissimi rumori. Poco efficaci sembrano anche le luci di Vinicio Cheli. Insomma, sotto il profilo registico, emerge un certo smarrimento, un vuoto approssimativo e un po’ “insipido” che fa a pugni con il carattere così profondo e tragicamente complesso dell’opera.

Tutt’altro discorso per la parte musicale, che brilla in primo luogo per la direzione di David Crescenzi. Alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana, il Maestro marchigiano imprime con i giusti tempi una lettura scorrevole e meticolosamente attenta a dinamiche e sfumature. Senza bisogno di uno spartito sotto, è lampante la sicurezza con cui egli guida buca e solisti ma al tempo stesso la passione e l’intensità che per tutta l’opera caratterizzano il suo gesto. Da apprezzare la scelta di non eseguire tagli e di concedere solamente le puntature di tradizione irrinunciabili.
L’efficacia e la solidità della direzione si riflettono in gran parte anche sugli interpreti. Innanzitutto per la prova sempre professionale del Coro Lirico di Modena, preparato dal M° Stefano Colò.
Nella parte del protagonista troviamo Devid Cecconi che dopo una prima alquanto travagliata in cui si è trovato a subentrare dal secondo atto con coraggio e bravura all’indisposto Marco Caria, ha cantato sin dall’inizio la seconda rappresentazione in programma. Il suo è un Rigoletto vocalmente stentoreo e incisivo dal timbro scuro e teatralmente efficace, in modo particolare nei momenti di maggiore dolore e fervore emotivo. Bis concesso nel duetto della “Vendetta” a fine secondo atto, al fianco di Daniela Cappiello, una Gilda molto giovane e con potenzialità che potranno in futuro esprimere ancor più sia con la voce che con l’interpretazione. La sua prova è comunque già così eccellente. La voce è limpida ed espressiva, le agilità e le note più acute sono perfette e si apprezzano suggestive mezze voci che testimoniano una tecnica ben assodata.

Marco Ciaponi, nei panni del Duca di Mantova ci regala finalmente un’interpretazione raffinata e di gusto. Quante volte assistiamo in questa parte a tenori sguaiati, attenti solo a dimostrare di saper cantare forte (che sovente corrisponde ad urlare) e a sfoderare acuti senza alcun senso? In Ciaponi ritroviamo invece il senso di ogni parola e di ogni frase cantata, un fraseggio elegante e la varietà di espressioni e accenti che Verdi desiderava. Inoltre si apprezza nel suo canto l’attenzione a sfumature, colori, legati che presuppongono una padronanza tecnica e uno studio della partitura che talvolta, troppo spesso, mancano. D’altro canto i tanto desiderati acuti non mancano, vi è pure il re (non scritto ma efficace teatralmente) al termine della cabaletta “Posente amor mi chiama”.
Sparafucile è Ramaz Chikviladze, interprete di grande interesse sia per la credibilità fisica e scenica che per il timbro sonoro e brunito messo al servizio del personaggio. Di spicco anche la Maddalena di Antonella Colaianni, voce sostanziosa e voluminosa, di bel colore, specialmente nel registro centrale e basso.
Non ci convince particolarmente Fellipe Oliveira, che ci pare affrontare con un po’ di difficoltà e durezze di emissione la drammatica entrata del Conte di Monterone, pur con uno strumento corposo. Sostanzialmente positivi Barbara Chiriacò (Giovanna) e i restanti interpreti, nell’ordine Romano Franci (Marullo), Roberto Carli (Matteo Borsa), Stefano Cescatti (Il Conte di Ceprano), Maria Komarova (Contessa di Ceprano), Paolo Marchini (Usciere di Corte) e Matilde Lazzaroni (Paggio).
Grandi applausi per tutto il cast con particolare calore per gli interpreti principali.
Grigorij Filippo Calcagno
Modena, 29 novembre 2019