Al Regio di Parma l’ultimo progetto del compianto Graham Vick vede la luce sotto la regia di Jacopo Spirei e la direzione di Roberto Abbado. Un Ballo in Maschera si riscopre così nella sua originaria veste svedese, Gustavo III.

Da diversi anni ormai è lodevole l’impegno con cui il Festival Verdi opera non solo nella mera rappresentazione e celebrazione dell’arte del Maestro, ma anche nella ricerca e nella riscoperta di pagine più e meno note e di elementi che possano, a tutto tondo, restituirci aspetti della personalità, dell’artista e della sua intera esistenza. Tutto ciò senza la presunzione di voler arrivare chissà dove o il vezzo di seguire mode passeggere che talvolta percorrono il mondo musicale. In queste operazioni vi è l’unico intento di contestualizzare e in fin dei conti ricomporre con estremo rigore scientifico la produzione verdiana nel suo complesso, restituendola alla sua autenticità.

In questo solco si colloca l’esperimento compiuto, quasi per gioco, con la messa in scena di Un Ballo in maschera nel libretto originario, quel Gustavo III che Somma e Verdi presentarono come definitivo prima che la censura imponesse modifiche consistenti, in primo luogo nell’ambientazione e quindi nei caratteri (passando così dalla Svezia e dal protagonista il re Gustavo III, ad una più confacente Boston con il governatore Riccardo). Si badi bene: non si tratta di un mero ritorno all’ambientazione scandinava operata attraverso la sostituzione di qualche nome e riferimento, ma alla filologica riscoperta dell’edizione originaria, musicata però sulle note di quella che tradizionalmente conosciamo (fatte salve piccole necessarie modifiche), non essendo pervenuta ad oggi, la completa partitura della prima versione. Un esperimento fatto come si diceva “per gioco”, un po’ come sul gioco e sulla follia si basa la concezione di uno spettacolo che del compianto Graham Vick mantiene qualche spunto ma su cui è chiaro che il “grosso” è stato compiuto dal regista Jacopo Spirei. Spettacolo che vede nella presenza di mimi e figuranti una componente importante: essi sono presenti in gran parte dell’opera, vestiti nelle maniere più disparate, a rappresentare una umanità variegata, disinibita e moderna, in cui i generi si confondono e la vita vissuta in maniera esaltata e carnale, mentre i protagonisti stridono nel contesto, con i loro costumi figli della borghesia ottocentesca. Il tutto avviene sempre sotto la presenza incombente di una grande statua raffigurante una sorta di angelo della morte scuro su un monumento funebre. Il coro è disposto a mo’ di osservatore esterno in alto e in fondo. Per il resto dominano le tinte scure di un’atmosfera lugubre e in cui la morte incombe. Autore di scene (che ad eccezione di quanto detto, utilizzano pochi elementi appartenenti al teatro come sipari e piattaforme sospese) e costumi è Richard Hudson, che bene sembra aver interpretato le idee iniziali del regista, pur in un certo senso di incompiutezza che prevale e che viene di fatto ammesso e “voluto”. Le luci, molto efficaci nel delineare le atmosfere richieste, sono di Giuseppe Di Iorio, i movimenti coreografici, assai funzionali, di Virginia Spallarossa.

©Roberto Ricci

Se la regia può aver diviso il pubblico tra tradizionalisti e non, pur senza particolari scandali e in totale assenza di contestazioni, il lato musicale ha messo maggiormente d’accordo tutti su un giudizio più che positivo. La direzione di Roberto Abbado è come sempre una garanzia. La precisione della Filarmonica Toscanini e dell’Orchestra Rapsody, l’equilibrio generale fra le parti, la scelta impeccabile dei tempi sono messi interamente al servizio di una interpretazione che esalta i contrasti tra dramma e leggerezza, tra momenti di maggiore intensità e di frivolezza, in un vero flusso emotivo che dall’inizio alla fine mantiene lo spettatore nel cuore dell’opera.

Tra le voci troviamo Piero Pretti nei panni del protagonista Gustavo, che convince pienamente per il bel timbro, il fraseggio curato, il canto generoso e ispirato.

Maria Teresa Leva supera brillantemente la prova dipingendo una Amelia assai credibile tanto scenicamente quanto vocalmente, pur con qualche imperfezione trascurabile. Particolarmente apprezzata la sua interpretazione della celebre aria “Morrò ma prima in grazia”.

Autentico “re” della serata, nonostante del re fosse solo il migliore amico, è Amartuvshin Enkhbat, nei panni di Anckastrom. Se come attore la sua performance può crescere e migliorare sensibilmente, il baritono ha dalla sua quella che forse è la più bella voce di oggi e degli ultimi anni, al tempo stesso vastissima per volume e corpo e morbida nell’emissione, sicura in ogni registro e sempre al servizio di una interpretazione musicale di assoluto livello.

©Roberto Ricci

Anna Maria Chiuri, invece, è artista di esperienza e di comprovate qualità, racchiuse in una resa davvero pregevole di Ulrica, ricca di sfaccettature e sfumature concorrenti a definire il carattere della maga.

Se Giuliana Gianfaldoni, dal canto suo, risulta un Oscar brillante e perfettamente a proprio agio, un po’ meno risulta esserlo la coppia Ribbing-Dehorn, ovvero Fabrizio Beggi e Carlo Cigni, che pur senza infamie non è del tutto incisiva e credibile nel suo insieme, causa qualche squilibrio di troppo.

Chiudono degnamente il cast Fabio Previati, come Cristiano, Federico Veltri, come servo del Conte, e Cristiano Olivieri, ministro di giustizia.

Da segnalare infine la sempre autorevole e professionale prova del Coro del Teatro Regio, preparato da Martino Faggiani.

Al termine vivo successo per tutta la compagine musicale e artistica.

Parma, 1 ottobre 2021

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